Come gli alchimisti trasformavano il ferro in oro… voi potete trasformare l’oscurità in luce. Siete tutte benvenute.

venerdì 13 marzo 2015

Buongiorno ragazze, vorrei aprire questo post raccontandovi una storia. Una storia che inizia con una serie di commenti anonimi vicendevolmente rispondenti lasciati ai miei ultimi post, continua con una lunga sequela di fantasiose ipotesi, e culminata ieri con una lettera altrettanto anonima dai toni piuttosto aggressivi che è stata spedita all’indirizzo dei miei genitori, i quali hanno prontamente provveduto a girarmela, trattandosi ovviamente di un qualcosa che riguarda prettamente me stessa.

Il fil rouge di questa storia è rappresentato dal fatto che tanto i numerosi commenti anonimi scritti a più voci, quanto le immaginose teorie campate in aria, quanto la letterina non firmata sono tutte opera di uno stesso individuo che, per semplicità, chiameremo casualmente Tiziano.

Mi chiederete come faccio a saperlo.
La spiegazione è in effetti di una banalità estrema: vedete, questo blog è dotato di un tracciatore. Un tracciatore è un sito che permette, tramite l’incorporazione di un pezzo di codice HTML, di monitorare tutta l’attività che viene condotta su un blog, e dunque di scandagliare ogni singolo host che anche solo per sbaglio entra nel mio sito. Pertanto, vi propongo alcuni screenshot che ho realizzato sul tracciatore stesso.
 
(Sono solo alcuni perché, dato il numero complessivo di visite realizzate – 1520! come potete vedere dal primo – se ce li mettevo tutti non si finiva più…)

Dunque, dato che la lettera anonima recapitata ai miei genitori da parte di Tiziano aveva il timbro postale di Milano, e che soltanto nell’ultima settimana un host locato in estrema prossimità di Milano ha compiuto la bellezza di 1520 visite al mio blog, fare 2 + 2 è stato semplice.

Chiudo questa prima parte del post dando a Tiziano una piccola delusione: il tuo tanto desiderato “effetto sorpresa” è morto sul nascere, dal momento che hai segnalato ai miei genitori l’esistenza di questo mio blog, che loro già conoscevano da anni.

Okay, detto questo, facciamo un passo indietro nella storia di cui a inizio post, e torniamo alla famigerata lettera che Tiziano ha inviato ai miei genitori. Quando i miei genitori mi hanno riferito quello che era successo, la prima domanda che mi è balzata in mente è stata: com’è possibile risalire al loro indirizzo fisico partendo dal mio blog?

Data la constatazione di questo dato di fatto, il mio primo impulso sul momento è stato quello di dire: okay, elimino il blog. Poi però ci ho pensato su e mi sono accorta che comportandomi in questo modo non avrei fatto altro che darla vinta a Tiziano. Partendo dal presupposto che un’opera diffamatoria mira essenzialmente a dare contro senza alcuno scopo né reale obiettivo, se mi fossi piegata avrei meramente fatto il suo gioco. Se avessi eliminato il blog, lui avrebbe vinto ed io avrei perso. Dunque, mi sono detta, no: il blog rimane tal quale, e scrivo un post in cui lo svelo, perché non esiste colpo che io non restituisca, e dieci volte più forte.

 E poi mi sono accorta di una cosa: che mi stava sfuggendo il punto. Perché questa non è una delle mie gare di karate, dove chi picchia più duro sale sul gradino più alto del podio, e che perde torna a mettere e a togliere la cera. Anche perché, una persona che si fa scudo dell’anonimato, inventa più persone che dialogano tra di loro nei commenti perché nessuno se lo fila di striscio, e arriva persino a scrivere una lettera inopportuna ai miei genitori pur di non parlare direttamente con me, è un perdente a priori. Mentre una persona che cerca di aiutare chi è in difficoltà, che si tratti di una difficoltà legata al DCA o meno, è una vincente a prescindere. Ma questa non è neanche una gara: questa è la vita. Questa è la vita, e io ho avuto una fortuna con la C maiuscola. Su Internet gira gente di tutti i tipi, questo è innegabile. Gira gente positiva e negativa. Io ho avuto la fortuna sfacciata d’incappare sì in uno di questi ultimi, ma in una persona negativa basilarmente innocua: una lettera anonima finisce nel cestino della raccolta differenziata, carta per la busta, organico per il contenuto. Ma se la persona in questione fosse stata pericolosa? Perché ce ne sono. Se la persona in questione avesse inviato una bomba, anziché una lettera? E se, trovato l’indirizzo, si fosse piazzato davanti casa per danneggiare i miei familiari?

In conclusione: io non so come da questo mio blog sia possibile risalire all’indirizzo fisico dei miei genitori, e neanche m’interessa saperlo. So solo che la mia famiglia, (così come i miei amici), rappresenta l’insieme di persone a cui tengo di più. E se il fatto di tenere un blog – per quanto questo blog sia indubbiamente d’aiuto a millemila ragazze, come più e più volte mi avete detto, e come mi hanno confermato molte associazioni che si occupano di DCA regalandomi l’onore e l’orgoglio di linkare il mio blog sui propri siti – deve anche sono ventilare alla lontana l’ipotesi di poter mettere in qualche modo a rischio le persone che amo… il gioco non vale la candela. Perché nella mia vita la priorità sono io, e il mio mondo. E tutte le persone che posso aiutare, pur con tutto il mio bene, non valgono la mia famiglia, i miei amici, i miei colleghi, le persone che amo. Il mio primo dovere è quello di proteggere e di prendermi cura delle persone cui voglio bene: e se l’esistenza di questo blog contribuisce invece anche solo a teorizzare la possibilità che qualcuno possa fargli del male, allora non c’è blog che tenga… perché la mia priorità è la mia famiglia, insieme a tutte le persone che amo.

Questo non significa in alcun modo, ovviamente, che adesso schioccate le dita e io sparisco. Eh no, non sarà così semplice liberarsi di me. Anche perché siamo una squadra, e squadra che vince non si cambia. Significa solo che, per tutelare la mia famiglia da possibili eventuali futuri malintenzionati, non sarò più fisicamente su questa piattaforma blogger. Ma mi troverete sempre su YouTube e su Twitter, a disposizione per ogni vostro M.P., e naturalmente a disposizione di tutte le associazioni che si occupano di DCA (delle quali mi sento di citare in particolare MiNutroDiVita – contattatemi pure per ogni necessità! Potete contare su di me.) per portare la mia testimonianza, il mio aiuto, il mio sostegno, il mio supporto, la mia partecipazione alle iniziative, per chiunque stia lottando contro l’anoressia.

Perché la vostra lotta quotidiana è la mia lotta. Perché non mi sono liberata dall’anoressia, è ancora lì, ma adesso sta in un angolino della mia mente a guardare, spettatrice immusonita, una vita ed un corpo che non è in alcun modo più in grado di tangere né di controllare. Perché la mia vita adesso appartiene solo a me stessa: la mia famiglia, i miei amici, i miei colleghi, il mio karate, la mia professione, i miei hobby, insomma, tutto quello che con fatica sono riuscita a riconquistarmi, ma che ne è valsa infinitamente la pena perché è tutto ciò che rende la mia vita una vita di qualità. Caro anonimo, pensavi che per vincere bastasse fingere? Hai perso tempo a credere quello che non è. Ed è per questo, semplicemente, che ho vinto: perché ora come ora non vorrei essere nessun altro al mondo che me stessa. Ed è tutto qui. La miglior vendetta non è vendicarsi: la miglior vendetta è stare bene.

Che è quello che auguro a ciascuna di voi, ragazze, di tutto cuore. Perché è l’unica, l’unica cosa che conta.

Vi amo di bene.
Prima. Ora. Sempre.

Veggie

venerdì 6 marzo 2015

Chiunque abbia l'anoressia ha solo paura d'ingrassare? Possiamo incolpare la società occidentale?

Una cosa che trovo divertente dell’aver posto un tracciante sul mio blog, è vedere quali parole conducono le persone al mio angolo virtuale; l’altra faccia della medaglia è ovviamente rappresentata dal fatto che non posso interagire direttamente con queste persone. Questo post rappresenta dunque, per lo meno in parte, un tentativo di rispondere ad una delle più comuni domande che indirizza le persone verso il mio blog. Domande frequenti sono varianti delle seguenti: “le modelle troppo magre causano l’anoressia?”, “relazione tra anoressia e immagini di modelle eccessivamente magre”, “le foto delle modelle nei giornali causano l’anoressia?”, “anoressia e ragazze che vogliono essere come le modelle”, “il ruolo della società nell’anoressia”, “pensieri dei medici su come le modelle magre causano l’anoressia”, “la società e l’eccessiva magrezza sono da incolpare per l’anoressia?”. Ecco, questo è il punto.

Ho già affrontato questa tematica in diversi post, l’ultimo di questi era quello in cui disquisivo su alcuni Case Report che si occupavano dei DCA in donne non vedenti, ma già in passato avevo parlato di come l’idea – ovvero il luogo comune – che va per la maggiore tra la gente sia quello che la società occidentale promuove un’ideale di magrezza che causa l’anoressia e che le ragazze con questa malattia hanno paura d’ingrassare.

Questo luogo comune, insieme all’idea che i DCA non esistano nei paesi non-occidentali (o che compaiano solo quando essi risentano dell’influenza dei mass media occidentali), come è emerso anche dal commento che Rosa ha lasciato al mio post precedente, è spesso accettato come fosse un dato di fatto.

Rieger e i suoi colleghi, in un loro studio, hanno cercato di esaminare se questi luoghi comuni fossero effettivamente fondati o meno. Più nello specifico, il loro obiettivo era quello di: “Esaminare in maniera critica 2 luoghi comuni sulla correlazione tra società, peso e anoressia: 1) che la preoccupazione per il proprio fisico è una specifica manifestazione occidentale contemporanea della malattia e 2) che la diffusione della cultura occidentale è responsabile dello sviluppo dell’anoressia nei Paesi non-occidentali. [Per condurre] una review della letteratura empirica e teoretica sugli aspetti culturali dell’anoressia nervosa e sulle cartelle cliniche di 14 donne asiatiche trattate per DCA a Sydney, in Australia.” (mia traduzione)

In sostanza, questi ricercatori sostengono che è il desiderio di perdere peso come forma di controllo piuttosto che la paura di prendere peso a rappresentare una caratteristica distintiva dell’anoressia, e che l’interazione della cultura occidentale nei paesi non-occidentali non è la sola, e men che meno la principale, causa di anoressia, ma semmai tutt’al più una delle millemila concause che stanno alla base di una malattia notoriamente multifattoriale.

Il loro non è un articolo di primo piano né una review omnicomprensiva, ma credo che sia comunque una review che dà molto da pensare, e che tira fuori degli aspetti veramente convincenti ed importanti.

Per come stanno le cose ad oggi, una diagnosi formale di anoressia nervosa, usando il DSM, richiede che le pazienti presentino:

• “intensa paura di acquistare peso o di diventare grassi, anche quando si è sottopeso.” e
• “Alterazione del modo in cui il soggetto vive il peso o la forma del corpo, o eccessiva influenza del peso e della forma del corpo sui livelli di autostima, o rifiuto di ammettere la gravità della attuale condizione di sottopeso” Il criterio del peso (“al di sotto dell'85% rispetto a quanto previsto”) e l’assenza di mestruazioni (amenorrea) sono altrettanto controversi (ne ho già discusso in passato in altri post, quindi evito di ripetermi).

Questi criteri sarebbero dovuti cambiare nell’ultima edizione del DSM, e nella fattispecie il criterio dell’amenorrea avrebbe dovuto essere eliminato… in realtà, però, leggendo il DSM-V si vede che detti criteri sono rimasti per lo più invariati:

• “Intensa paura di aumentare di peso o di ingrassare, o comportamento persistente che interferisce con l’aumento di peso, nonostante un peso significativamente basso.”
• “Anomalia nel modo in cui è percepito il peso o la forma del proprio corpo; inappropriata influenza del peso o della forma del corpo sulla propria autostima, o persistente perdita della capacità di valutare la gravità della attuale perdita di peso.”

In sostanza, Rieger e i suoi colleghi valutano se questi criteri siano validi (Non esattamente, in effetti, perché quest’articolo è stato pubblicato nel 2001, dunque prima della revisione della corrente edizione del DSM, ma francamente penso che i redattori del DSM avrebbero tratto grosso beneficio dal leggere questo articolo).

Com’era già chiaro dal 1995, quando uno psichiatra inglese, Gerald Russell, scrisse:  
“Può darsi che si stia avvicinando il momento in cui sarà opportuno rivedere i nostri criteri diagnostici per l’anoressia nervosa, perché credo ci sia una falsa precisione nella formulazione attuale.” (mia traduzione)

Tra l’altro, Russell è stato il primo a pubblicare una descrizione della bulimia nervosa (e, sì, il “Segno di Russell” ha proprio preso il nome da lui).  

Natura delle preoccupazioni per il peso nell’anoressia 

Studi cross-culturali suggeriscono che la preoccupazione per il peso è minore nelle pazienti non-occidentali rispetto a quelle occidentali. Per esempio, in uno studio di 70 pazienti cinesi di Hong Kong, meno della metà riportavano preoccupazione per il proprio peso durante la fase più acuta della malattia. Tuttavia, queste donne attribuivano la loro perdita di peso ad inappetenza, epigastralgie o dolori addominali, il che suggerisce che la diagnosi di anoressia nervosa poteva essere del tutto inappropriata: una perdita di peso legata a perdita di appetito (nota bene: nel gergo medico l’ “inappetenza” si traduce con “anoressia” – ma NON “anoressia nervosa”!!) è piuttosto un segno di depressione – non di anoressia nervosa.

Rieger suggerisce che quello che è estremamente comune (universale?) nei casi di anoressia nervosa (“ciò che la distingue da ogni altra condizione patologica”) è la natura egosintonica del disturbo. Più specificatamente, il fatto che “la magrezza estrema non è percepita dalle pazienti come un reale problema: per quanto consapevoli che potrebbero averne dei danni di salute, continuano comunque a perseguirla perché questo le fa stare bene e le fa sentire come se avessero tutto sotto controllo”.

Rieger quota la descrizione di una paziente fatta da Charles Lasègue nel lontano 1873:
[…] soprattutto, lo stato di quiete, potrei quasi dire uno stato di appagamento davvero patologico. Non solo [la paziente] non mostrava alcun interesse nel farsi curare, ma era sostanzialmente soddisfatta della sua condizione, pur comprendendo i potenziali rischi per la sua salute. Comparando questo stato di soddisfazione con l’ostinazione a proseguire un percorso patologico, non credo che arriverò molto lontano. Comparando invece tutto questo con le altre forme di anoressia, non posso che osservare quale enorme divario vi sia. […]” (mia traduzione)

Nota a margine: la parola “magrezza” NON è contemplata nella prima descrizione dell’anoressia nervosa da parte di Lasègue.

Un’altra interessante paziente la troviamo in uno studio condotto da Ciseaux nel 1980: “[…] è come se [la paziente] non capisse cosa significa prendersi cura della propria salute. Sostiene che più dimagrisce, o comunque si mantiene magra, meglio si sente […] orgogliosa delle proprie capacità di controllo […] come se la restrizione alimentare fosse diventata la cosa più importante che abbia mai fatto nella sua vita. […]” (mia traduzione)

Rieger evidenzia altri esempi di pazienti che non contemplano affatto la paura di prendere peso od ingrassare:
 “[…] la restrizione alimentare dà un senso di grande potere, le pazienti provano la sensazione soddisfacente di avere tutto sotto controllo, e questo serve a perpetrare la patologia e a mantenerne la natura egosintonica. […]” (mia traduzione)

Insomma, quello che si evince è che, nelle varie pazienti, la restrizione alimentare e la correlata conseguente perdita di peso viene vissuta come fortemente egosintonica.

Rieger conclude la prima parte dello studio citando Russell: 
La paura di prendere peso sembra essere piuttosto una conseguenza, che non una caratteristica in sé, dell’anoressia nervosa, e non è comunque presente in tutte le pazienti. Quello che invece è costante ed immutabile in tutte le pazienti è il fatto che la natura della patologia è fortemente egosintonica, che è guidata dalla percezione di una sensazione di controllo, e che questo controllo esteso alla propria alimentazione e al proprio corpo permette alle pazienti di venire a capo dei propri conflitti interiori tacitandoli e illudendosi così di averli risolti.” (mia traduzione)

Natura delle preoccupazioni per il peso nell’anoressia in Paesi non-occidentali. 

È stato – e tuttora purtroppo è – luogo comune sui DCA il credere che esistano solo nel mondo occidentale, e che la loro comparsa nelle minoranze di immigrati sia legata all’influenza della cultura e dei mass media occidentali: l’internalizzazione di un ideale di magrezza. Alcuni ricercatori avevano provato ad attribuire la differente prevalenza dei DCA nei vari Paesi non-occidentali al diverso “livello di occidentalizzazione” di suddetti Paesi.

Questo tentativo di attribuzione, ovviamente, non tiene conto dei casi di anoressia che comunque si sono verificati ben prima che il modello di magrezza fosse quello dominante nella società. Quel che è certo è che, quando William Gull e Charles Lasègue descrivevano casi di anoressia, la parola “magrezza” non viene MAI menzionata.

Ad oggi esistono studi che mirano a dimostrare che esiste una correlazione tra modelli proposti dalla civiltà occidentale, preoccupazione per la propria fisicità, e DCA, e allo stesso tempo esistono altrettanti studi che mirano a dimostrate che detta correlazione è inesistente.

Per esempio, uno studio rivela che nelle ragazze asiatiche emigrate in Inghilterra, la restrizione alimentare era correlate a valori tradizionali (e NON occidentali) (Hill & Bhatti, 1995). Questa conclusione è supportata da un ulteriore studio condotto da Mumford e i suoi colleghi nel 1991, che rileva la medesima correlazione. Hoek ed i suoi colleghi, in uno studio del 1998, rivelano che la prevalenza dell’anoressia nella popolazione generale di un’isola caraibica era la medesima dei Paesi occidentali, e uno studio di Apter et al. nel 1994 mostra che in un gruppo di villaggi musulmani le donne mostravano le medesime psicopatologie alimentari di pazienti occidentali affette da anoressia.

Fare studi cross-culturali è, tuttavia, molto difficile: innanzitutto, i test e gli strumenti utilizzati per valutare le pazienti in un Paese, sono applicabili, adeguati e rilevanti per pazienti di un altro Paese? E mentre tali problemi metodologici possono spiegare i risultati contraddittori ottenuti, Rieger suggerisce che questo “può essere dovuto ad una possibilità raramente presa in considerazione: che a prescindere dalla provenienza geografica, l’anoressia può rappresentare comunque una strategia di coping che viene messa in atto a prescindere da tutto.”

Gli autori hanno preso in esame anche le cartelle cliniche di 14 pazienti asiatiche affette da anoressia e bulimia, trattate a Sydney, in Australia. Tutte le pazienti riferivano di aver vissuto la restrizione alimentare come egosintonica, ma solo alcune di esse riferivano di aver paura di riprendere peso/ingrassare. Pur non mostrando particolare paura nei confronti del riprendere peso, alcune delle pazienti si rifiutavano di prendere in considerazione la gravità clinica della loro condizione di sottopeso.

Parlando della mia esperienza personale (quanto di meno scientifico possa esserci, insomma…), effettivamente io non ho mai avuto paura di riprendere peso, ed ero anche consapevole del fatto che il mio regime di restrizione alimentare era insalubre ed avrebbe potuto recare danni alla mia salute: tuttavia avevo talmente tanto bisogno di sentirmi in controllo, che le preoccupazioni sulla salute scivolavano in secondo piano. Non mi interessava il peso in sé (tant’è che non mi sono mai pesata, nemmeno nella fase più acuta dell’anoressia), anzi, avrei preferito poter continuare a restringere l’alimentazione pur mantenendo costate il mio peso (cosa impossibile, ovviamente) affinchè nessuno se ne accorgesse e io potessi continuare a restringere l’alimentazione per sentire il senso di controllo che mi trasmetteva. Infatti non m’interessava il perdere peso, mi interessava solo il meccanismo della restrizione alimentare perché mi faceva percepire questo (illusorio) senso di controllo: l’anoressia era una strategia di coping strettamente connessa al mio patologico bisogno di controllare ogni singolo ambito della mia vita. Difatti nel momento in cui, durante il mio percorso di ricovero, sono arrivata a comprendere a pieno questo (inizialmente ne avevo una consapevolezza molto parziale), seguire l’ "equilibrio alimentare" è diventato relativamente semplice.

Tornando allo studio in questione, Rieger e i suoi colleghi lanciano anche dei suggerimenti per studi futuri miranti a valutare la validità dei loro assunti. In sostanza, dicono che i futuri studi dovrebbero essere più esplorativi e aperti alle più svariate interpretazioni. Dicono che dovrebbero andare oltre i soliti test per DCA standardizzati nei Paesi occidentali, e affrontare la tematica con meno pregiudizi lasciando aperto il campo a tutte le ipotesi possibili: valutare per esempio se anche nei Paesi non-occidentali ci siano degli ideali di magrezza su basi culturali o religiose o tradizionali, perché affezionarsi ad ipotesi sbagliate può in definitiva limitare la comprensione dell’anoressia, per cui è importante esaminare criticamente ogni possibile ipotesi.

Per come la vedo io, la domanda centrale è: qual è la caratteristica distintiva dell’anoressia? E’ la paura di prendere peso, e dunque chi non ha questa paura rappresenta un caso “atipico” di anoressia, o è l’ampiamente applicabile criterio dell’egosintonico desiderio di restringere l’alimentazione? Io voto a favore dell’egosintonia: ritengo che l’egosintonica natura della patologia sia ciò che veramente definisce l’anoressia. E, egosintonicamente parlando, suppongo anche di aver ragione.

Se mi rifaccio alla mia esperienza, infatti, io non volevo affatto dimagrire (ero magra già in partenza), anche perché questo comprometteva le mie prestazioni sportive, però volevo restringere l’alimentazione perché mi faceva sentire in controllo. A suo modo, mi faceva stare bene. E io volevo sentirmi in quel modo. Secondo me, queste sono ragioni profondamente egosintoniche, anche perchè non m’interessava il peso in sé.

E voi, ragazze, cosa ne pensate? Qual è stata la vostra esperienza? Quale pensate sia il ruolo della paura di riprendere peso nell’anoressia? E dell’egosintonia? Se vi va, scrivetelo nei commenti!

venerdì 27 febbraio 2015

"ED Awareness Week"... per chi?

Non so se lo sapete o meno, ma negli Stati Uniti d’America questa è la cosiddetta “ED Awareness Week” (tradotto letteralmente: “Settimana di Consapevolezza sui DCA”).
Così come noi in Italia abbiamo la giornata del fiocchetto lilla, negli U.S.A. “ben” 7 giorni all’anno vengono spesi per i DCA.
In questa settimana, bazzicando i più noti siti Internet americani (come quello del NEDA, dell’ANAD, dell’EDC, del NEDIC, giusto per farvi alcuni esempi) in cui si parla di DCA, ho notato come numerose iniziative siano state messe in atto per (cito testualmente, pur traducendo) “implementare la consapevolezza in merito ai DCA

Tuttavia, pur vedendo quanto si siano dati da fare, mi è comunque sorta spontanea una domanda: ma a chi è destinata, veramente, la “ED Awareness Week”? Per chi viene fatta? 

È per la gente che non ha mai vissuto sulla propria pelle un DCA? È per i familiari di chi ha un DCA? È per suscitare l’interesse dei mass media? È per le persone affette da DCA?... Insomma, chi è il target di questa settimana di consapevolezza sui DCA?
E in cosa esattamente spera di rendere la gente consapevole?
Che esistono persone che hanno un disturbo alimentare? A-ha. Embè?

Forse uno degli obiettivi è quello di spiegare che i DCA non sono meramente malattie adolescenziali, ma possono colpire persone di qualsiasi età. Oppure che i DCA non colpiscono soltanto le donne, ma si possono ammalare anche gli uomini. Okay, è bene che la gente venga a sapere questo genere di cose, ma poi... cosa?

Forse la “ED Awareness Week” vuol essere un modo per spingere le persone che hanno un DCA a chiedere aiuto? Sarebbe molto positivo, questo. Ma se andate a dare uno sguardo a come questo aspetto viene presentato in molti di questi siti (tra cui quelli che ho citato prima), vedrete che si tratta per lo più di un fare pubblicità a cliniche private e a psicoterapeuti, che ci guadagnerebbero non poco se un maggior numero di persone affette da DCA si rivolgessero a loro. Bè? E una cosa del genere, a chi dovrebbe essere d’aiuto?

Non che sia una male cercare di spronare le persone che hanno un DCA a rivolgersi a professionisti competenti per farsi affiancare nel loro percorso di ricovero, altro ci mancherebbe: io stessa sono la prima a dire che a mio parere è indispensabile essere seguiti da dietista e psicoterapeuta per poter combattere efficacemente contro l’anoressia. Tuttavia, il modo in cui la cosa viene presentata su quei siti mi appare molto buonista, e quindi mi sembra che ci sia del torbido: mi pare che l’interesse serpeggiante, subliminale, sia molto più quello di far guadagnare cliniche e psicoterapeuti, che non quello di aiutare chi ha un DCA.

E dunque, tornando alla domanda di partenza: a chi serve questa settimana? Vuole forse essere una sorta di “ogni cosa per chiunque”? Stile “La Festa Della Mamma” o “San Valentino”? Perchè questa è un po’ l’impressione che a me scaturisce.
O è forse una cosa del tipo “DCA Pride”?

Insomma, come dovrebbero reagire di fronte a tutto questo le persone che hanno effettivamente l’anoressia/la bulimia/il binge/un DCAnas? Perché la maggior parte delle persone affette da DCA afferisce proprio a questi siti (io stessa talvolta lo faccio, peraltro), per cui quali pensieri una cosa del genere può suscitare? Qual è il messaggio che alle persone con un DCA dovrebbe arrivare? “Tesoro, sei malata, fatti curare!”? Forse potrebbe anche spingere alcune persone in quella direzione, ma ho il sospetto che non sia così probabile come potrebbe sembrare.

Non so, forse è solo una mia impressione, ma tutto ciò che è riferito a questa “ED Awareness Week” mi sembra, come dire… molto monodirezionale, nonché molto cheerleaderesco (Go, ragazze, go! Ricoveratevi in clinica, go!).

Al di là di questo aspetto di “pubblicità” delle varie strutture di ricovero e dei vari psicoterapeuti, non mi sembra ci sia poi tanto altro. Anzi, in diversi siti ho visto, con mio grande disappunto, il fiorire di numerosi luoghi tanto comuni quanto assolutamente falsi sui DCA. Non viene spiegato praticamente niente di approfondito sulle dinamiche mentali di chi ha un disturbo alimentare, c’è solo una passiva raccolta di cliché che chiunque potrebbe leggere su un qualsiasi articolo di “Donna Moderna” o di “Grazia”: MAMMAMIA LE DONNE ODIANO IL LORO CORPO! Due domande: qual è la sensibilizzazione in questo? E che cosa mai questo ha realmente a vedere con i DCA?

Uno dei problemi, secondo me, è che anche questi grandi siti statunitensi che si occupano di DCA non comunicano abbastanza tra di loro: basti vedere di fatto che nella maggior parte di essi non ci sono neanche i link per afferire ad altri siti simili nei contenuti. Io credo che se ci fosse una maggior comunicazione, e una maggiore voglia di far luce sulla vera natura dei DCA, lavorando di squadra si otterrebbero risultati nettamente migliori. Perché anziché rivangare sempre i soliti luoghi comuni non vengono proposti articoli più dettagliati che vanno ad esplorare aspetti come il bisogno di controllo, l’autostima, le problematiche di compliance, le comorbidità, e via dicendo? Forse sarebbero tematiche più difficili da affrontare, più impegnative, più controverse e meno sensazionalistiche rispetto al mettersi a gridare che l’anoressia è causata dalla società che vuole solo donne magre, però credo che alla lunga i risultati conseguiti sarebbero migliori.  

E voi cose ne pensate? Chi pensate siano i veri destinatari della “ED Awareness Week”? A cosa pensate dovrebbe mirare una campagna di sensibilizzazione sui DCA? E come credete si potrebbe agire per cambiare le stato attuale delle cose?

venerdì 20 febbraio 2015

Istamina e Anoressia

Immagino che ad alcune di voi, nella propria vita, sia capitato di assumere degli antistaminici – farmaci che bloccano la degranulazione dei mastociti e l’azione dell’istamina (per esempio: Zirtec, Aerius, Atarax, Trimeton, Cetirizina) – generalmente per bloccare i sintomi di una qualche allergia. Sebbene l’istamina sia fondamentalmente nota per il suo ruolo nella risposta immunitaria, ha anche altre importanti funzioni nel sistema nervoso centrale.

Nel nostro cervello, in rilascio di istamina è importante per l’arousal (ecco perché assumere antistamici ci rende sonnolenti), nonché è impilicato nel regolare l’appetito, la percezione del gusto, l’apprendimento, la memoria, i comportamenti aggressivi, la motivazione e le emozioni (tra le altre cose). (Yoshizawa et al., 2009) Alterazioni nel rilascio di istamina nel cervello sono implicate in una vasta gamma di patologie, tra cui la schizofrenia (Iwabuchi et al., 2005), la depressione (Kano et al., 2004), e la sclerosi multipla.

In ogni caso, dato che il mio blog è centrato sui disturbi alimentari, il mio obiettivo è quello di parlare del ruolo dell’istamina nel controllo dell’appetito. Come Yoshizawa e i suoi colleghi hanno visto dai loro studi:

• Un incremento dei livelli di istamina corrisponde ad un decremeno dell’appetito.
• Bloccare la secrezione di istamina viceversa aumenta l’appetito
• L’attività istaminergica è incrementata dall’assunzioni di cibo dopo un lungo periodo di restrizione alimentare.

In buona sostanza, da questo studio emerge che c’è una relazione di proporzionalità inversa tra attività istaminergica e appetito: un’elevata attività istaminergica sopprime l’appetito e quindi riduce l’assunzione di cibo, mentre una bassa attività istaminergica aumenta l’appetito. Gli effetti dell’istamina sull’alimentazione sono mediati dai recettori istaminergici di tipo H1. Lo studio in questione sottolinea peraltro il fatto che l’attività istaminergica è molto più spiccata nelle donne che non negli uomini, in particolare proprio per quel che riguarda i recettori istaminergici H1, poiché è stato dimostrato che le donne possiedono una più elevata densità di recettori H1.

A partire da queste considerazioni, gli autori di questo studio hanno volute valutare se il sistema istaminergico era alterato nelle donne affette di anoressia, rispetto a donne (ed uomini) non affetti da questa malattia, utilizzando la PET (Tomografia ad Emissione di Positroni), e focalizzandosi proprio sui recettori di tipo H1. Gli autori hanno ipotizzato che perturbazioni dell’attività istaminergica in pazienti affette da anoressia potessero essere in qualche modo correlate alle anomalie del comportamento alimentare o alle emozioni negative provate.

Un rapido flash sulla neurotrasmissione (istaminergica) 

[Se ne sapete già di neurobiologia, saltate pure questa parte che, peraltro, è molto semplificata per venire incontro alle esigenze di lettrici anche molto giovani. Non me ne vogliano gli specialisti per le inevitabili inesattezze.] 

I neuroni comunicano tra di loro rilasciando delle sostanze chimiche chiamate neurotrasmettitori (per esempio: istamina, serotonina, dopamina, etc…). Queste sostanze chimiche esercitano la loro azione legandosi a specifici recettori presenti sulle cellule-bersaglio (i recettori sono schizzinosi: non legano ogni qualsiasi molecola gli capiti a tiro, ma soltanto alcune specifiche molecole che gli sono complementari. La realizzazione di questo legame piò avere molteplici effetti sulle cellule. Per esempio, può rendere queste cellule più o meno favorevoli a partecipare alla comunicazione neuronale con le altre cellule, oppure può attivare/disattivare l’espressione di determinati geni nella cellula (tra le molteplici altre cose…). Esistono 4 recettori per l’istamina, con molta fantasia chiamati H1, H2, H3 e H4, che sono coinvolti in diversi processi e attività (leggete qui)

Quando i medici parlano di variazioni dell’attività istaminergica nel cervello (o dell’attività serotoninergica, dopaminergica, etc…), possono fare riferimento a molteplici cose differenti, che interessano l’intero sistema nervoso. Per esempio, variazioni nella densità dei recettori per l’istamina su una membrana cellulare, variazioni nel metabolismo dell’istamina, variazioni della velocità con cui l’istamina si lega ai propri recettori, comporta un cambiamento della quantità e della frequenza di rilascio dell’istamina e può influenzare l’intera attività istaminergica. Queste variazioni a loro volta possono influenzare le nostre risposte biologiche, psicologiche e comportamentali. Nel caso dell’istamina, nel più semplice degli esempi, questo può significare variazioni della durata e dell’entità dei sintomi di un’allergia.

Lo studio in questione

Per valutare l’attività istaminergica nel cervello, gli autori dello studio hanno utilizzato il radionuclide [(11)C]Doxepina. I radionuclidi sono dei farmaci marcati radioattivamente “che si possono legare ad un recettore, trasportatore, enzima, od un qualsiasi sito d’interesse. Misurare la velocità e l’entità del legame fornisce informazioni sul numero di siti di legame, e la loro affinità ed accessibilità.” (Fonte)

Gli studi condotti con la PET frequentemente misurano una cosa chiamata “potenziale di legame”. Il potenziale di legame fornisce una misura combinata della densità dei recettori (in questo caso nella fattispecie, la densità dei recettori H1 che sono capaci di legare il radionuiclide) e l’affinità del radionuclide per questi recettori. In questo studio, gli autori verificano il potenziale di legame della [(11)C]Doxepina per studiare i recettori H1.

Ora, io non m’intendo particolarmente di studi con la PET, quindi non so se questa sia la prassi comune, ma penso sia abbastanza interessante il fatto che gli autori tengano conto del ciclo mestruale delle donne partecipanti allo studio: tutte le scansioni PET sono state eseguite 1 settimana dopo l’ultima mestruazione.

Partecipanti allo studio 

Le partecipanti allo studio erano 12 donne affette da anoressia sottotipo 1, 12 donne senza alcun tipo di DCA, e 11 uomini senza alcun tipo di DCA. L’età media dei partecipanti allo studio era di circa 20 anni. Le donne affette da anoressia erano malate in media da circa 5,2 anni (range: 3 – 9 anni), ed avevano un B.M.I. medio di 14,7 (vs il B.M.I. medio del gruppo di controllo che era circa 20,35).

Le scoperte principali 

Confermando studi condotti in precedenza, gli autori hanno scoperto che il potenziale di legame della [(11)C]Doxepina era maggiore nelle donne affette da anoressia rispetto al gruppo delle donne di controllo soprattutto in 2 regioni: il nucleo lenticolare sinistro, e la parte destra dell’amigdala. In generale, non c’era una singola regione in cui il potenziale di legame delle donne affette da anoressia fosse inferiore rispetto a quello del gruppo di controllo.

Contrariamente a quanto avevano ipotizzato i ricercatori, invece, non vi era alcuna correlazione positiva tra il potenziale di legame della [(11)C]Doxepina e la gravità/durata del DCA. Ovvero: a prescindere dalla fase del DCA in cui si trovava una donna, non c’era un incremento del potenziale di legame (in altre parole: il potenziale di legame era simile a quello di donne e uomini senza DCA).

Cosa significa tutto questo? 

Come ho detto prima, le donne hanno una densità di recettori H1 maggiore rispetto a quella degli uomini. Gli autori suggeriscono che forse questa differenza gioca un ruolo nell’incrementare la vulnerabilità delle donne rispetto all’anoressia, che può essere associata con l’attività istaminergica nel sistema nervoso centrale.

Come la penso io 

L’ipotesi fatta dagli autori dello studio è interessante, ma è bene tenere a mente che in realtà non sappiamo niente rispetto a quale sia l’effettivo ruolo dell’istamina nello sviluppare l’anoressia, ammesso e non concesso che ne abbia effettivamente uno.

Anche la scoperta che il potenziale di legame è maggiore nei nuclei lenticolari (regione del cervello importante per la regolazione dei movimenti fini, tra le altre cose) e nell’amigdala (il cosiddetto “centro delle emozioni” del cervello) è un qualcosa di interessante. Tuttavia, dal momento che lo studio è unitario e non ci sono stati altri studi miranti a verificare la medesima cosa, non sappiamo se il dato è veritiero o se si tratta semplicemente di una coincidenza.

Per come la vedo io, inoltre, le alterazioni della neurotrasmissione istaminergica sono conseguenza, e NON causa dell’anoressia, o per meglio dire dell’ipoalimentazione, per cui secondo me non è che l’istamina in sé gioca un ruolo nello sviluppo dell’anoressia, è l’anoressia, con la sua restrizione alimentare, che va ad alterare la secrezione di istamina.

Vi faccio inoltre notare che questo studio è stato condotto su pazienti che erano nel pieno della malattia, ma non è stato replicato al migliorare delle loro condizioni psicofisiche, quindi non sappiamo se e cosa sarebbe cambiato una volta che quelle donne fossero state meglio. Per cui, lo studio in questione mi sembra anche un po’ incompleto.

Limitazioni dello studio 

Secondo me questo studio presenta inoltre delle notevoli limitazioni, tra cui:

• un piccolo campione di partecipanti (sono ragionevolmente sicura che questo sia dovuto a motivi economici: la PET è un esame molto costoso) che non può rendere statisticamente significativo lo studio
• comparazione tra molte differenti aree del cervello (il che aumenta il rischio di commettere certi errori statistici)
• incapacità di dimostrare che le variazioni dell’attività istaminergica siano causa o (come credo io) conseguenza dell’anoressia
• incapacità di dire se le differenze nel potenziale di legame siano dovute a cambiamenti della densità o dell’affinità recettoriale (presente la definizione? Il potenziale di legame è un compendio tra le 2 cose…)

Le mie conclusioni 

Come saprete soprattutto se leggete il mio blog da un po’ di tempo, io sono molto favorevole ad ogni qualsiasi genere di studi che possano essere condotti sull’anoressia, per cercare di sviscerare un po’ più a fondo questa malattia. Tuttavia, in questo caso storco un po’ il naso: lo studio è figo, ma non conclude un granché. Gli autori lanciano l’idea che le persone affette da anoressia abbiano una più elevata densità di recettori H1 in diverse regioni del cervello, ma questo input dovrebbe essere approfondito massivamente. Se quanto è venuto fuori è vero, occorrerebbe allora valutare la relazione e i cambiamenti tra pazienti affette da anoressia e gruppo di controllo senza DCA, per capire se questi cambiamenti sono dovuti all’anoressia o meno: valutare cioè se si tratta della causa o dell’effetto.

Il cervello umano è straordinariamente complesso, i DCA sono altrettanto straordinariamente complessi, e i modi che abbiamo finora per studiarli sono generalmente scadenti. La ricerca dovrebbe avere un’importanza preliminare, così come la nostra generale comprensione della neurobiologia dei DCA. Ma la situazione è MOLTO complessa, studiare i DCA è MOLTO arduo, e avere un’interpretazione unitaria data la molteplicità di persone affette è pressoché impossibile.

Postilla: Non sono un medico di diagnostica nucleare, per cui quello che so in merito alla PET è necessariamente limitato. Ergo, se ne sapete più di me, o se trovate degli errori in quello che ho scritto in questo post, o conoscete altri studi di questo tipo, fatemelo notare senza problemi! E, naturalmente, se vi va ditemi come la pensate… mi farebbe molto piacere.

venerdì 13 febbraio 2015

Tenete duro e mirate bene

Come potete vedere dai commenti del post precedente, ieri mi è stato lasciato un commento in anonimo da una ragazza che si definisce Pro Ana. Mi riferisco a questo commento:

“Qsto post è veramente noioso, così come trovo molto noioso tutto in generale di qsto blog. Tu dici ke combatti l’anoressia e pensi ke fai la cosa giusta, ma allora come te lo spieghi ke non ti legge quasi nessuno? I tuoi post hanno circa 15 commenti l’uno (a volte comprese le tue risp) e ci sono anke persone ke nn approvano, io invece ho un blog pro ana e ti assicuro ke di solito ci sono almeno una quarantina di commenti a post come minimo, e ti assicuro ke le altre sono daccordo con me, anke se tu disprezzi qllo ke facciamo. Tu dici ke le cose come il D.A. o i consigli per nn mangiare o quelli x vomitare sono kavolate, ma guarda caso il post con i consigli x vomitare è qllo + gettonato sul mio blog, quindi forse nn è tutta qsta kavolata come dici. Quindi, se tu pensi ke hai ragione e ke noi pro ana abbiamo torto, come spieghi ke io ho + consensi di te? Come spieghi ke ci sono molto più blog pro ana ke nn blog come il tuo? Come spieghi ke il mio blog viene letto e commentato molto + del tuo? …Forse xkè nn hai tutta la ragione ke credi.”

Ora, non so come la pensiate voi, ma a me pare abbastanza evidente che si tratti di una palese provocazione. E di fronte alle provocazioni, in genere, si aprono 2 scuole di pensiero: da una parte c’è chi suggerisce di ignorarle di sana pianta affinché la persona provocatrice si cuocia da sola nel suo brodo, dall’altra c’è chi dice di rispondere al fuoco col fuoco per non lasciare la provocazione impunita e tenere testa a quella persona facendole abbassare la cresta. Non nego che ambedue le possibilità abbiano un senso logico, e non nego che, quando ho finito di leggere quel commento, avevo già deciso quale delle 2 strade imboccare. Tuttavia, mentre stavo per partire per la mia tangente, mi è tornata in mente una cosa: mi è tornato in mente quando, durante il mio primo periodo di tirocinio in Pronto Soccorso, quando il Dr. Tommaso B. era ancora il mio tutor, c’era un’infermiera che era veramente intollerabile. Innumerevoli volte sono stata sul punto di produrmi in sclerate magistrali di fronte a suddetta infermiera, ed altrettante volte Tommaso mi ha fermata semplicemente dicendomi: “Vincila in gentilezza”. Ecco, queste sue parole mi sono tornate in mente anche ieri, quando ho letto il commento in questione. Mi tornano in mente anche adesso, ed io mi fido al 100% di Tommaso. Per cui, ecco quello che voglio fare: vincere in gentilezza. Non voglio ignorare la provocazione come niente fosse, perché dedico risposte a chiunque commenti sul mio blog, favorevolmente o meno. Ma non voglio neanche ribattere alla provocazione con altra provocazione, perché mi sembra un comportamento infantile e fine a se stesso, che mi pone allo stesso – infimo – livello di chi ha lasciato un commento del genere. Però, voglio vincere in gentilezza: ecco perché voglio dare a questo commento marcatamente provocatorio una risposta seria.
(Don’t worry, ragazze, l’ironia non mancherà comunque…) 

E dunque, mia cara anonima Pro Ana, eccomi qua a rispondere al tuo commento.
Mi chiedi perché il tuo blog attira più lettrici rispetto al mio, e perché ottieni molti più consensi di me. Per poter rispondere, a te e alle mie scarsissime lettrici, a questa domanda, ho bisogno di un esempio. Vi ricordate il Caso Stamina? Davide Vannoni propagandava un metodo di cura per la malattie neurodegenerative, che diceva essere basato sulla conversione delle cellule staminali mesenchimali in neuroni. Il caso è arrivato (dopo tanto, troppo tempo) ad un processo, che ha concluso che questo psicologo della comunicazione, che tanto si vantava del suo metodo miracoloso che avrebbe salvato vite umane – ma che si rifiutava di pubblicare, nota bene – era in realtà un mero truffatore. Prima di arrivare a questa sentenza, tuttavia, c’è stato un lungo periodo di incertezza, con cui i mass media sono andati a nozze, e che ha visto l’opinione pubblica spaccarsi in due: soprattutto il Web era pieno di sostenitori del Metodo Stamina, mentre la contraria opinione scientifica (su una problematica medica, eh, non sulla letteratura del Rinascimento!) faceva fatica ad affermarsi, stile “siamo riprecipitati nel Medioevo”.

Ecco, questo esempio ricalca perfettamente quella che è la contrapposizione tra il mio blog e i blog Pro Ana: mia cara commentatrice Pro Ana, il morivo per cui il tuo blog riceve più visualizzazioni e più consensi del mio, è meramente perché il tuo blog è ricco di pathos, di scritti sensazionalistici, di thispo allucinanti, di fantasiosi resoconti sulla tua alimentazione e sul tuo peso, mentre il mio si limita ad essere una raccolta di consigli di auto-aiuto per combattere contro l’anoressia, e un piccolo compendio di studi scientifici esposti in maniera semplificata su vari aspetti dei DCA. Detto in maniera più terra-terra: il tuo blog è pieno di BALLE ROBOANTI, mentre sul mio blog viene scritta la ben più MODESTA VERITA’.

[A seguire, lungo pippone sul perché su Internet le balle proliferano a sfare, e sul perché la verità non ce la può fare: vi ho avvertite, siete ancora in tempo a cliccare la “X” rossa in alto a destra.] 

Di fronte ad un commento come quello succitato, mi sono posta qualche interrogativo: perché nel Web è così difficile parlare dei DCA in modo serio, e le bufale scritte dalle Pro Ana sembrano avere un inspiegabile successo? La gente ha svenduto neuroni ultimamente, o si faceva prendere per i fondelli così facilmente anche prima? Come mai la gente si lascia abbindolare da un metodo fumoso e approssimativo come quello Stamina, o da una lista di consigli “per diventare anoressica”? Perché leggono cose del tutto aleatorie e discutibilissime, su un blog a caso scritto da una sconosciuta, e ci credono al volo? Cos’è, un incantesimo?

Okay, andiamo con ordine. E dunque, consideriamo in primis la problematica del contesto.
Il contesto medico/scientifico consta di una sorta di competizione tra colleghi ricercatori, che fanno a gara a che fa per primo la migliore scoperta. In questo tipo di sfida non devi apparire intelligente, ma devi esserlo veramente, mettendo in campo argomentazioni che resistano alla prova dei fatti, poiché questi verranno incontrovertibilmente messi alla prova da tutti i tuoi colleghi. Se propagandi in maniera sensazionalistica e fumosa argomentazioni che possono essere smontate con dati di fatto, sarai destinato alla sconfitta, e potrai dire ciao-ciao alla tua carriera. Detto meccanismo serve tuttavia per far confrontare tra di loro i ricercatori, e determina una selezione naturale in cui le teorie più fallaci soccombono, mentre le teorie dimostrabili vincono.
Spostiamoci adesso in altro contesto: il bar. Al bar non occorre dimostrare niente di serio: le ipotesi strillate di fronte a cappuccino e cornetto alla marmellata non sono destinate a riviste specialistiche, e non aiutano a far carriera. La competizione rappresenta dunque solo uno sfogo, un modo per gasarsi di fronte ai presenti. In una sfida da bar vince chi riesce meglio ad apparire intelligente, chi simula meglio conoscenze che non ha. Tragico? No, ci mancherebbe. Che importanza ha se al bar una cricca di italiani medi sputano sentenze su tematiche di cui non hanno competenze? Il nostro è un Paese libero, per cui chiunque è liberissimo di dire ogni qualsiasi cagata gli passi per la testa, perché rimane a livello di chiacchiera.

In passato, i ricercatori scientifici e i frequentatori di bar rappresentavano 2 mondi a sé stanti: la caciara dei bar non si mescolava in alcun modo con un serio confronto tra varie ipotesi scientifiche destinate alla pubblicazione e alla divulgazione. Da nessun bar è mai uscita alcuna pubblicazione scritta in stampatello, con le “K” al posto del “CH” e gli errori ortografici. Poi però è arrivato Internet, che ha cambiato le carte in tavola. Il Web permette un’ampissima condivisione delle informazioni, chiunque può leggere qualsiasi cosa, chiunque può scrivere, condividere, commentare ed esprimere giudizi. Giudizi – e qui sta il problema – scritti.

Le balle, le balle scritte sui blog Pro Ana nella fattispecie, e i commenti a sostegno delle balle, sul Web sono scritti, non più orali come le ciance da bar. Di conseguenza, subiscono il fascino delle cose scritte: anche se sono emerite cazzabubbole, come una serie di consigli per vomitare o per non mangiare, hanno l’apparenza di cose serie, hanno tutto il carisma del Verbo (sì, pur essendo atea lo intendo stavolta in senso biblico: la Parola scritta). Su Internet ogni qualsiasi opinione, poiché scritta, ha la pretesa di essere seria come nel contesto scientifico, anche se la modalità espressiva è quella del bar: niente carriere da perseguire, per cui basta apparire intelligenti, tanto chi mai redigerà un saggio con le tue sclerate su blogger? Quando si va nel mondo virtuale, quello che conta è vincere, riuscire ad avere l’ultima parola, e a volte anche le parolacce e le offese (spesso e volentieri coperte dall’anonimato) sono d’aiuto: se ti trovi in difficoltà e ti metti ad infamare l’altra persona, magari quella si allontana disgustata, e tu vinci. D’altronde, non stiamo mica a Stanford: questa è l’arena di Internet.

Inoltre, chiunque tenga un blog Pro Ana si sente investita dall’incarico di scrivere post – e un post è come un articolo, sembra sempre ufficiale e serio – utilizzando una miriade di enfasi (MI TENGO SOTTO LE 700 KCAL AL GIORNO! SONO RIUSCITA A VOMITARE! MIA MAMMA MI CONTROLLAVA MA IO L’HO FREGATA! HO PERSO ALTRI 2 KG!) e focalizzandosi tantissimo sull’emozione. Tutto ciò dovrebbe già iniziare a far suonare un campanello d’allarme: una balla che punta sull’emotività riduce le difese del raziocinio, produce trasporto emotivo, fa perdere il lume della ragione. Un medico, un ricercatore, uno scienziato, quando lavorano, non devono emozionarsi: se cedono all’emozione, e pensano di avere tra le mani la verità senza averla testata più e più volte, potrebbero perdere nella competizione tra intelligenti e rigorosi, con tanti cari saluti alla carriera. Se io scrivo un post su come l’anoressia può svilupparsi in donne non vedenti, o sulla multifattorialità causale dell’anoressia, occorre che lo faccia citando fonti ben precise e rintracciabili, altrimenti il mio blog perde di credibilità, e tutto quello che scrivo può essere opinabile. Quando si scende nel campo dell’opinabilità, diventa giusto tutto e il contrario di tutto, per cui in tale campo chiunque venga a dirmi che l’anoressia è la malattia delle ragazzine sceme che vogliono fare le modelle potrebbe pure avere ragione. Ecco perché ho scelto di impostare il mio blog diversamente, aiutandomi con fonti scientifiche nella redazione dei miei post, anche se questo può risultare pesante o noioso.

L’utente-media che razzola su un blog Pro Ana, altresì, utilizza infondate informazioni come fossero oro colato: ecco che viene coinvolta in una sorta di caccia al tesoro, in cui ci si aggrappa a quella che viene vista come la verità più gustosa, e in cui si cerca di dimostrare con ogni mezzo (diari alimentari, consigli per vomitare, lettere di Ana e di Mia, 10 comandamenti Pro Ana, etc…) che quella verità è migliore delle altre. È chiaro che in un blog del genere la verità non può vincere facile, perché non è sensazionalistica né performante, nel momento in cui ci si trova immersa in un contesto di balle emozionanti e gasanti.

Un articolo dettagliato sui ricercatori che hanno preso un premio Nobel per aver studiato i neuroni che si occupano dell’orientamento è spesso difficile e noioso, e se viene pubblicato su blogger non riceverà molti commenti, così come non riceverà molti “Mi piace” se pubblicato su FaceBook. Tuttavia, un articolo su 5 persone morte dopo essersi fatte il vaccino anti-influenzale, manderà tutti in fibrillazione, verrà letto millemila volte, e condiviso nonché commentato altrettante.

Inoltre, i blog Pro Ana lanciano i loro post con titoli roboanti e fotografie allucinanti: ecco che la cosa funziona ancora meglio, perché c’è ancor più emozione immediata, si riesce meglio ad attirare l’attenzione, si catturano più lettrici fogate e possedute dal demonio digitale che commentano in maniera acefala e impulsiva, condividono, e danno così un’apparente autorevolezza ad ogni post.

In questo modo, tutto si mescola: quando, in passato, Internet non era granché diffuso, e la divulgazione andava per la maggiore tra le aule dell’Università e i laboratori di ricerca, per le balle era difficile affermarsi: arrivavano alla frontiera e venivano fermate e perquisite. Forse il sapere era nelle mani di un numero più ridotto di persone, ma senz’altro era tutto molto più verificato. Attualmente, invece, su Internet si trova di tutto, qualsiasi cosa si voglia sapere è a portata di click, tuttavia così facendo si innesca una tipologia di competizione che porta al prevalere dei contenuti più emotivamente coinvolgenti, non di quelli effettivamente seri e verificati.
L’autorevolezza (nota bene: autorevolezza – NON autorità! – che si guadagna sul campo, e NON viene imposta) che consegue al titolo di studio conseguito, e alla propria competenza professionale, su Internet conta poco e nulla, in quanto i criteri per vincere la competizione su Internet sono differenti.

Un blog Pro Ana non è altro che libera divulgazione di materiale non verificato, e per di più in mano a persone non competenti, destinato a un pubblico di persone altrettanto non competenti, che alla fin fine vogliono solo essere intrattenute per cercare di dimenticare i veri problemi che hanno nella vita quotidiana ma che non riescono altresì ad affrontare: questo mix determina un successo quasi sicuro per ogni qualsiasi balla roboante. Matematico.

Del resto, il successo delle balle non è proprio solo dei blog Pro Ana, ma è comune al Web più in generale, e non è eliminabile, altrimenti ci sarebbe un controllo ed una censura dei contenuti. Certo, si potrebbe comunque scegliere di selezionare i contenuti, oscurando i siti Pro Ana ed altri che propinano altrettante balle, ma in fin dei conti chiunque si dichiarerebbe contrario ad una selezione così stretta: il Web è una sorta di Isola Che Non C’è, e piace perché libero ed anarchico. Se vogliamo una totale libertà d’espressione, dobbiamo anche essere consapevoli che in essa sono comprese la disinformazione e gli strafalcioni.

Per inciso, ho letto circa un mesetto fa un articolo in cui c’era scritto che FaceBook aveva intenzione di inserire un “tasto anti-bufale”. Io non sono registrata a FaceBook, quindi non so se questa cosa sia stata resa operativa o meno ma, in ogni caso, ho i miei seri dubbi sul fatto che una trovata del genere possa funzionare. Immaginate un post scritto da una ragazza che si definisce Pro Ana che riceve delle segnalazioni come bufala: all’autrice basterà sostenere che chi l’ha segnalato non capisce il suo “stile di vita”, è invidiosa della sua magrezza ed è in combutta con quella fazione di blogger rompicoglioni che dicono di essere Pro Recovery, farà la parte della vittima, susciterà un sacco di clamore, e via dicendo. Discussioni no limits, visite per il suo blog a palla, e così le balle non avranno problemi a passare la frontiera.

In conclusione, mia cara anonima Pro Ana: è vero, il tuo blog viene più letto e commentato del mio perché delle balle scritte con pathos fanno più figura della verità semplice. Ma il numero di lettrici – ergo di commenti – niente dice in merito alla qualità, e men che meno alla veridicità e alla ragione, di ciò che viene scritto: il fatto che anche millemila persone possano credere ad un mucchio di balle, questo non le trasforma in alcun modo in verità. E se anche millemila persone affermano una cosa stupida, quella cosa non smette comunque di essere stupida.

Nella lotta per il numero di visualizzazioni del proprio blog su Internet, le balle hanno terra fertile ed artiglieria pesante. Per i partigiani della verità e della serietà scientifica, invece, c’è solo una malconcia trincea e una decina di carabine arrugginite. Rinforzi? Neanche l’ombra… Perciò, ragazze: tutte voi che leggete/commentate il mio blog, e sapete ancora distinguere il divario che corre tra questo e un blog Pro Ana… tenete duro, e mirate bene.

venerdì 6 febbraio 2015

Il difficile è fare le cose semplici: La complessità dell'anoressia

Chi legge il mio blog da un bel po' di tempo saprà che non ho mai scritto un post in cui elenco le cause, la natura, le esperienze e le terapie dei DCA, poichè in effetti non ho alcuna certezza a tal proposito. Tuttavia, se c'è una cosa di cui sono assolutamente sicura a proposito dei DCA è che sono delle malattie terribilmente complesse e multisfaccettate senza soluzioni univoche che possano andar bene per tutte. Per cui, ho molto apprezzato questo studio scientifico scritto da Michael Strober e Craig Johnson, che mira ad esplorare la complessità dei DCA e del loro trattamento terapeutico.

Per scrivere l'articolo sono stati utilizzati case report, letteratura, e l'esperienza clinica degli autori stessi, al fine di rispondere al alcune delle controversie che circondano l'anoressia ed il suo trattamento terapeutico. Di tutte le controversie esistenti su questo DCA, si sono focalizzati su 2 in particolare.

1 - Cause genetiche/biologiche (Malattie mentali su base biologica) dell'anoressia? 
2 - Terapia familiare come migliore forma di trattamento per le pazienti adolescenti? 

Nell'analizzare questi 2 punti, gli autori hanno posto una fondamentale premessa: concentrarsi sulle singole spiegazioni e soluzioni terapeutiche per l'anoressia, oscura la complessità di questa patologia, e di conseguenza tutto il processo e tutte le possibili soluzioni terapeutiche necessarie per trattarla in maniera efficace. Di questa complessità occorre tenere conto, perchè è fondamentale per capire che l'approccio terapeutico più adatto varia da persona a persona. Dopo aver contestualizzato ed approfondito le tematiche trattate, Stober e Johnson concludono l'articolo suggerendo dei punti di riferimento per il trattamento terapeutico dell'anoressia.  

Controversie come catalizzatori di conversazione

Lungi dal suggerire che le controversie che emergono in merito ai DCA in generale e all'anoressia in particolare debbano essere evitate, gli autori sottolineano che i punti di disaccordo e le discussioni in merito all'eziologia e al trattamento di queste patologie sono servite a mettere in luce aree su cui indagare per imparare qualcosa di nuovo su queste patologie.

Soprattutto, gli autori sottolineano che non sono necessariamente in disaccordo con la recente focalizzazione sugli eventuali aspetti genetici/biologici dei DCA e con la psicoterapia familiare, dicono semplicemente che è necessario ampliare le vedute riducendo l'importanza di questi 2 punti, per lasciare spazio anche ad altro.

Come forse molte di voi sapranno, ultimamente sono stati avviati diversi studi che cercano di correlare la comparsa dell'anoressia all'azione di fattori genetici/biologici. Io non dico che questo sia sbagliato, però mi sembra estremamente limitativo: trattare l'anoressia da un punto di vista gene-centrico mi sembra possa portare, al di là di tutto, alla conclusione che una volta che si è recuperato il peso perso, la psicoterapia è inutile perchè tanto è un problema di DNA.

Inoltre, poichè è noto il fatto che la psicoterapia funziona meglio quando si recupera peso, alcuni psicoterapeuti sono dell'idea che non sia opportuno iniziare il lavoro psicologico, fino a che il peso perso non è stato recuperato. Viceversa, gli autori di quest'articolo (ed io li quoto in pieno) sostengono che per fare psicoterapia non c'è bisogno di aspettare il recupero ponderale.  

Reificazione della genetica

Mentre nella maggior parte dei trials clinici si fa riferimento a dei gold standard presenti in ogni campo cientifico, la rilevanza dei trials randomizzati controllati e degli studi genetici può risultare, come gli autori suggeriscono, in una “reificazione” dei risultati di questi studi. Anche se vi possono essere forti evidenze a favore di un determinato tipo di trattamento, ciò non significa che quel trattamento vada bene sempre, comunque e per tutte le persone affette da anoressia. Come Strober e Johnson fanno notare, rimangono comunque numerose questioni aperte, compresa quella del perchè uno stesso trattamento terapeutico non è ugualmente efficace su tutte le persone, e perchè non sempre la pratica clinica si basa sulle evidenze scientifiche.  

Cause genetiche/biologiche rivistate

Come gli autori suggeriscono, non c'è una specifica evidenza che vi sia un'ereditarietà diretta per l'anoressia. Io non sono certo una genetista nè una neurobiologa, ma effettivamente non riesco a vedere una grande connessione tra malattie genetiche ed anoressia. La maggior incidenza di casi all'interno di una stessa famiglia, la imputo a cause comportamentali piuttosto che genetiche.

Gli autori dello studio danno pertanto dei suggerimenti su come la genetica potrebbe essere, ma solo trasversalmente, implicata nello sviluppo dell'anoressia:

• I geni e l'ambiente che ci circonda sono correlati, tuttavia nessuno di essi singolarmente è in grado di spiegare nè di causare un DCA
• Persone con una predisposizione all'anoressia possono essere esposte a particolari circostanze di vita e determinano l'espressione di quelle caratteristiche alle quali sono predisposte
• La genetica e l'ambiente che ci circonda possono incidere contemporaneamente o separatamente in diversi momenti della vita di un individuo
• I circuiti neuronali si plasmano e si adattano sulla base dell'ambiente che circonda il soggetto
• Lo stress può essere catalizzatore di variazioni neurochimiche che modulano cambiamenti di diverse aree cerebrali e condizionano il comportamento
• Uno stress ambientale porta ad iper-sensibilità delle aree cerebrali implicate nella generazione della paura, d'altro canto queste stesse strutture possono essere riportate alla norma agendo sull'ambiente stesso
• Il carattere e l'ambiente in cui un individuo vive influenzano significativamente il suo comportamento

La discussione degli autori in merito all'interazione tra geni ed ambiente è dettagliata e intrigante; e mi è piaciuto il fatto che fattori ambientali sia positivi che negativi siano stati indicati come possibili concause dell'anoressia, poichè troppo spesso ci si concentra solo sui fattori ambientali negativi, e si tende a tralasciare l'effetto di quelli positivi.

In breve, Strober e Johnson argomentano il fatto che i medici (e le persone più in generale) debbano prendere in considerazione come minimo 3 fattori diversi per cercare di comprendere l'anoressia:

• Fattori biologici
• Fattori ambientali
• Personalità e contesto vitale dell'individuo

Senza riuscire a comprendere questi 3 fattori, è veramente difficile trovare un trattamento efficace per l'anoressia. Come illustrano anche i casi clinici studiati in questo articolo “i sintomi delle malattie psichiche non esistono in un vuoto impersonale”, e far riferimento solo a spiegazioni genetico-biologiche è insufficiente a fornire soluzioni che possano essere valide per chi soffre e per i familiari.  

Esperienza, competenza e complessità

Un altro elemento centrale di questo articolo è la focalizzazione sull'importanza di una corretta istruzione teorico-pratica per i medici che avranno a che fare con queste patologie così complesse. Gli autori si lanciano in una disquisizione sulle strategie implicate nella determinazione dell'approccio terapeutico più appropriato per la singola persona affetta da anoressia. Sottolineano come i medici debbano diventare più consapevoli delle loro pecche nel comprendere e nel trattare l'anoressia, tanto quanto la scienza li sottende.

Le stesse pazienti ed i loro familiari devono essere informati (presumibilmente dal team terapeutico) della multifattorialità della patogenesi dell'anoressia: questo è un suggerimento che ho particolarmente apprezzato, perchè mi sembra che troppo spesso i genitori si auto-accusino della genesi dell'anoressia nelle loro figlie, quando magari il loro ruolo è più o meno marginale, e la loro comprensione sull'anoressia molto parziale.

Comprendere che l'anoressia è una malattia a patogenesi multifattoriale non significa che in tutti i casi la famiglia c'entri meno di meno zero nella comparsa di questa patologia, ma significa che il suo ruolo non è così centrale come per molto tempo varie teorie psicologiche hanno detto fosse, e che dunque è necessario concentrare maggiormente il lavoro psicoterapeutico sul singolo individuo, che non sulla sua famiglia.  

Stabilire punti di riferimento

Ovviamente, data la grande complessità dell'anoressia, non è facile determinare dei punti di riferimento durante il corso del trattamento terapeutico.

Gli autori dell'articolo pertanto sottolineano una serie di punti da prendere in considerazione:

• Sintomi lievi che persistono nonostante tentativi terapeutici non devono essere ignorati o sottovalutati.
• La salute fisica e quella mentale sono strettamente correlate: la lucidità di una ragazza affetta da anoressia, e dunque la possibilità di trarre giovamento dalla psicoterapia, aumenta in maniera direttamente proporzionale al recupero del peso perso.
• Una singola strategia terapeutica applicata su un vasto numero di pazienti dà generalmente risultati insoddisfacenti, poichè ogni singola persona risponde bene ad uno specifico tipo di terapia.
• L'inesperienza stessa degli psicoterapeuti, o i preconcetti che essi stessi hanno sull'anoressia possono avere effetti estremamente negativi sul percorso di ricovero di una paziente.
• Più a lungo l'anoressia persiste, peggiore è il suo impatto sulla salute psicofisica delle pazienti.

Mentre dei punti di riferimento possono essere utili in termini di decidere se una ragazza debba essere ricoverata in clinica o meno, e su quale tipologia di percorso terapeutico seguire, senza un team medico che abbia adeguata esperienza nel campo dei DCA e che sia in grado di comprendere quali complessi processi si giocano nell'anoressia, difficilmente un percorso di ricovero risulterà utile.

Con la constatazione che i loro suggerimenti per i punti di riferimento sono una linea di massima piuttosto che soluzioni empiriche, gli autori propongono diversi scenari e punti di riferimento. Questi punti di riferimento sono per lo più centrati sul tipo di DCA, e variano sulla base dell'età e del decorso della patologia.

Non voglio annoiarvi ulteriormente mettendomi ad illustrare singolarmente i vari punti di riferimento: se siete interessate, vi raccomando caldamente di leggere l'articolo per intero.

Implicazioni

A mio avviso, quest'articolo fa un lavoro eccellente nell'illustrare la complessità dell'anoressia. I suggerimenti dati da Strober e Johnson sottolineano quanto sia importante essere a conoscenza di questa complessità, e quanto sia altrettanto fondamentale essere ben informati, e ben coordinati nel trattamento di un DCA.

Inoltre gli autori fanno anche notare come il trattamento più adatto per un DCA non sia generalizzabile, ma variabile da persona a persona, e come in momenti differenti del percorso della strada del ricovero si possa aver bisogno anche di strategie terapeutiche diverse. Inoltre, gli autori fanno notare come non tutti i medici siano ugualmente competenti nel trattare i DCA e quanto sia importante pertanto non arrendersi se si incappa in psicoterapeuti non propriamente centrati, ma continuare a cercare fino a che non si trovano persone realmente competenti ed in grado di darci una mano concretamente.

Infine, gli autori a mio parere fanno un ottimo lavoro anche nel sottolineare le incredibili battaglie che giorno dopo giorno si trova ad affrontare chi ha un DCA, ed anche i familiari. Mi piace molto vedere come questi 2 autori si prendano a cuore la tematica dell'anoressia nella sua totale complessità, e come il loro sguardo sia rivolto ad ampio raggio alle pazienti, alle famiglie, e ai terapeuti, perché è solo coordinando l'azione e lavorando come una squadra che si ottengono i risultati migliori.

venerdì 30 gennaio 2015

L'esposizione alle foto di modelle eccessivamente magre può causare DCA? - Anoressia e Bulimia in donne cieche

Come molte di voi sicuramente sapranno, la rivista Vouge conduce da tempo una campagna contro le modelle “troppo magre” (e “troppo giovani”). Questo potrebbe sembrare un passo nella giusta direzione, no, un grande passo nella giusta direzione, uno di quelli che merita un applauso, uno strenuo tentativo di ridurre la prevalenza dell'anoressia, giusto? La logica della stragrande maggioranza degli articoli di Vouge, implicita od esplicita che sia, sembra essere: niente più modelle magrissime = niente più ragazzine che aspirano a diventare come quelle modelle magrissime = niente più anoressia.

La salute delle modelle e dei modelli è salita alla ribalta dei Mass Media da quando, negli anni passati, nel mondo della moda ci sono stati alcuni decessi di modelle che sono stati attribuiti all'anoressia. Precisato che, in realtà, non si muore propriamente di anoressia, ma semmai delle conseguenze dell'anoressia, occorre notare che Vouge ha bersagliato non solo le modelle eccessivamente magre, ma anche l'impatto che queste avrebbero potuto avere sulle giovani menti di ragazzine poste di fronte ad immagini di fisici che erano ben lontani dall'essere in salute.

I 19 editori di Vouge sparsi per tutto il mondo si sono allora organizzati per mettere in piedi un progetto mirante a proteggere l'immagine di modelle sane. Si sono trovati tutti quanti d'accordo nel “non far lavorare modelle di età inferiore ai 16 anni o che sembrano visivamente malate di DCA. […] Vouge crede che la salute sia bellezza. Gli editori di Vouge vogliono che la loro rivista rifletta la loro dedizione verso la salute delle modelle che appaiono nelle loro pagine. […] Gli organizzatori delle sfilate di moda in Italia e in Spagna proibiranno di fare passerelle alle modelle che scenderanno sotto un certo valore di B.M.I.(mia traduzione) 

Non so voi, ma a me queste parole sembrano tanto quelle di quei predicatori di strada che incitano a gran voce la gente ad unirsi al proprio movimento religioso... ma vabbè. Però ho quantomeno alcune domande e alcune riflessioni.  

Cosa significa esattamente “sembrare visivamente malate di DCA”? Le persone affette da bulimia, per definizione del DSM, sono tendenzialmente normopeso o sovrappeso: il che non significa che non abbiano comunque un DCA. Per converso, essere fisicamente magre non significa necessariamente avere un DCA.

Avere un B.M.I. sopra o sotto un certo valore, non è un marker di “buona salute”. E questo non lo dico io, ma è dimostrato in questo studio. Per chi non avesse voglia di leggerlo, in breve, l'indice B.M.I. non ha una derivazione prettamente scientifica, e non ha alcun valore se applicato su base individuale: serve solo come misura di massima collettiva, per il singolo è opportuno considerare il Set-Point di peso corporeo individuale.  

Infine, il discorso fatto da Vouge perpetua il falso luogo comune che guardare le immagini di modelle eccessivamente magre per molto tempo possa portare a sviluppare un DCA. Non è vero. Okay, gli articoli di Vouge non lo dicono esplicitamente, però mettono sempre in relazione la comparsa di DCA nelle ragazzine particolarmente sensibili ed influenzabili con le modelle eccessivamente magre. Io non credo che guardare quelle immagini, per quanto a lungo, possa causare un DCA, altrimenti visto che quelle immagini sono sotto gli occhi di tutti, se ci fosse effettivamente una relazione di causa-effetto, chiunque avrebbe un DCA. Vedere immagini del genere può influenzate l'idea sul proprio corpo di una qualsiasi donna? È possibile. Ma da qui allo scatenare un DCA, ne corre di acqua sotto i ponti! Ergo, ribadisco che io sono dell'idea che le immagini di modelle eccessivamente magre non influenzi l'insorgenza dell'anoressia.

Okay, adesso qualcuna di voi mi potrà dire: va bene, Veggie, ma queste sono solo tue riflessioni e supposizioni, che non hanno alcuna validità scientifica. Vero. Ed è per questo che oggi voglio portarvi la scientifica dimostrazione che il postulato “l'anoressia è causata dalla società odierna, con la sua ossessione per la magrezza, e con la promozione di immagini di modelle eccessivamente magre” è FALSO.

Premessa su cui mi baso: se fosse vero che il vedere le immagini di modelle eccessivamente magre causa l'anoressia, allora le donne cieche, soprattutto quelle cieche dalla nascita, sono immuni all'anoressia.

Per dimostrare la mia teoria ho raccolto alcuni case report che parlano di DCA in pazienti cieche. Sfortunatamente diversi di questi non solo molto recenti, perchè penso sarebbe stato interessante avere anche della letteratura più aggiornata. Inoltre, peso che i Mass Media non abbiano mai parlato di queste cose (sebbene non lo possa dire con assoluta certezza, poichè non ho seguito ogni qualsiasi programma televisivo relativo ai DCA). Io citerò solo alcuni di questi case report, ma considerate che ce ne sono molti altri.

***Attenzione: Come d'abitudine nel mio blog, ho tolto dai case report di cui vi sto per parlare ogni qualsiasi dato numerico, MA alcuni dei contenuti di questi case report potrebbero comunque rappresentare un trigger, soprattutto per chi ha problemi di autolesionismo.***  

Case Report 1: Una donna 27enne cieca affetta da Anoressia Nervosa (Yager, 1986) 

Background
"Divenuta completamente cieca all'età di 2 anni, ha attraversato un'infanzia molto travagliata: è stata vittima di bullismo in ambiente scolastico, ed i suoi genitori, entrambi alcoolisti, avevano una relazione difficile. Avevano divorziato quando lei aveva 6 anni, risposati dopo 4 anni, divorziato di nuovo dopo altri 10 anni. Quando ha scoperto che il padre era infedele nei confronti della madre, ha sviluppato la convinzione che “non c'era nessuno di cui potersi fidare, neanche chi dice di volerti bene”. Uno dei suoi nonni si è suicidato, e uno zio è morto per problemi di cirrosi alcool-correlati. Sua sorella maggiore aveva periodici episodi di binge. L'altra sua sorella si era allontanata dalla famiglia appena maggiorenne, ed aveva avuto dei problemi di tossicodipendenza. 
A 13 anni ha avuto il menarca e si è sviluppata fisicamente. Ha vissuto molto male lo sviluppo, ed è andata rapidamente in amenorrea per una combinazione di perdita di peso e rifiuto psicologico. 
A 18 anni si è iscritta al Conservatorio allontanandosi dall'insalubre ambiente domestico, ma dopo essere stata allontanata dal Conservatorio stesso senza una ragionevole spiegazione (“a causa della sua cecità gli insegnanti non riuscivano a relazionarsi a lei”), ha avuto un crollo nervoso e sviluppato una severa depressione. Ha cominciato ad avere episodi di autolesionismo molto severi, per cui si tagliava ripetutamente, sempre nelle stesse sedi, perchè aveva maturato l'idea che le ferite dovevano rimanere sempre aperte altrimenti lei sarebbe stata “una cattiva persona”. 
Durante il periodo più acuto della depressione, ha iniziato anche a perdere peso (sebbene fosse sempre stata una ragazza perfettamente normopeso, e non ne avesse dunque alcun reale bisogno), ed è stata ricoverata in ospedale quando ha raggiuto i XX chili. Negli anni successivi ha avuto altri occasionali ricoveri per tentativi di suicidio. 
Allo stesso tempo, le è stata diagnosticata l'anoressia: aveva un peso molto basso e non aveva alcun interesse nel recuperare i chili persi, faceva attività fisica per diverse ore quotidianamente, la sua alimentazione era molto scarsa e costituita per lo più da frutta e verdura. 
Faceva frequentemente checking, e la sua percezione di se stessa era incostante: “A volte mi sentivo magra, altre no, ed era una qualcosa che cambiava da un giorno all'altro”. Era consapevole che le sue variazioni di peso erano più che altro dovute a ritenzione/perdita di liquidi, ciò nonostante non si sentiva a suo agio con se stessa. Durante il periodo acuto dell'anoressia la depressione si era attenuata, ma persistevano episodi di autolesionismo seppure più sporadici. 
È stata trattata con diversi tipi di farmaci (antidepressivi, litio, etc...) e anche con 12 sessioni di ECT, senza sortire alcun effetto concreto: era rimasta ad un peso basso, e con una forma mentis caratteristica dell'anoressia." (mia traduzione)

La discussione di questo case report l'ho trovata piuttosto interessante. C'è infatti un altro luogo comune secondo il quale cattivi rapporti con la propria madre, o famiglie incasinate, siano importanti fattori che possono portare allo sviluppo di un DCA (il che può essere vero in questo caso di specie, ma certamente NON in tutti i casi di anoressia). Nessuna discussione sui Mass media sembra tuttavia mettere in primo piano questi tipi di fattori, che implicherebbero che la continua esposizione visiva all' “ideale di magrezza” non è affatto necessaria per sviluppare l'anoressia.

[...] La meticolosità con cui gestiva la sua alimentazione, l'episodio di depressione, le continue discussioni dei genitori, l'autolesionismo hanno rappresentato un background di vulnerabilità per questa ragazza. La consequenziale anoressia è emersa in un periodo in cui si sentiva completamente priva di direzione e di obiettivi – nel momento in cui la sua considerazione di sè ha raggiunto il minimo dopo essere stata espulsa dal Conservatorio; l'anoressia le ha dato un'identità nel momento in cui, persa quella di musicista in erba, ne cercava disperatamente un'altra.” (mia traduzione) 

Il perfezionismo che questa ragazza aveva in quanto studentessa del Conservatorio, la presenza di binge in una delle sorelle, e il clima in cui è cresciuta possono essere stati inoltre fattori contribuenti allo sviluppo dell'anoressia.  

Case Report 2: Rita (Vandereycken, 1986) 

Background
"Rita aveva dei severi problemi di vista sin dalla nascita (miopia e nistagmo congenito con una visione a distanza di 1/20 anche dopo correzione). I suoi genitori avevano il loro bel da fare a causa del padre in trattamento psicofarmacologico continuativo per depressione cronica. Rita aveva degli ottimi risultati scolastici e veniva descritta dagli insegnanti come “una ragazza molto precisa con una grande paura di fallire”. Il suo primo ricovero ospedaliero per anoressia si è realizzato all'età di 17 anni (nel 1978). 
Aveva iniziato a perdere peso durante l'anno precedente, e i genitori avevano ascritto questa perdita di peso allo stress dovuto all'ingente studio cui la ragazza si sottoponeva per conseguire i suoi ottimi voti, e sul momento non vi avevano prestato particolare attenzione. Durante le vacanze estive, l'intervento del medico di famiglia aveva permesso a Rita di recuperare il peso perso... ma, apparentemente, più che altro a causa di ripetuti episodi di binge. Con l'inizio del nuovo anno scolastico, tuttavia, aveva ricominciato a perdere peso, associandovi anche alcuni episodi di vomito autoindotto. Era diventata iperattiva, ed aveva difficoltà a dormire e a studiare. La perdita di peso l'aveva costretta ad un ricovero ospedaliero." (mia traduzione) 

Gli autori del case report si limitano a concludere dicendo che: “In questo caso, sembra che l'anoressia sia stata l'espressione di un perfezionismo nato in ambito scolastico e successivamente generalizzato e portato all'estremo.” (mia traduzione)

Sebbene questa conclusione mi sembri un po' misera, perchè non tiene conto di tutto il background della ragazza in questione, questo case report mette comunque in luce il fatto che dietro all'anoressia c'è ben di più del voler essere magra come le modelle. In effetti, nella pressochè totalità dei casi, non ha niente a che vedere col voler fare la modella, a differenza di ciò che il luogo comune vuol far credere.  

Case Report 3: Claire (Vandereyhen, 1986) 

Background
"Claire era nata cieca. Era stata una bambina tranquilla, intelligente e determinata. Tuttavia, all'età di 14 anni, senza cause apparenti, aveva iniziato a restringere l'alimentazione riportando, come in tutte le iniziative che intraprendeva, un discreto successo. Era sottopeso già in partenza, per cui la perdita di peso l'aveva portata a valori estremamente bassi. 
Nel momento in cui era comparsa l'amenorrea, i suoi genitori preoccupati si erano rivolti al medico di famiglia, che aveva girato la ragazza ad uno psichiatra. Claire era stata ricoverata in una clinica specializzata, ma il ricovero non aveva sortito l'effetto desiderato perchè la ragazza non era collaborativa (si definiva “sana e a suo agio con se stessa”). La perdita di peso perciò era andata avanti fino a raggiungere XX chili, e solo in quel momento Claire aveva cominciato ad aver paura che qualcosa sarebbe potuto andare storto con quel suo corpo esilissimo. A quel punto, era stata la ragazza stessa a richiedere un ricovero. Inizialmente aveva cercato di essere quanto più autonoma possibile, ma la sua cecità non facilitava le cose, per cui durante quel ricovero non vi furono particolari miglioramenti. 
Tuttavia, grazie alla costante presenza di una psicoterapeuta che la seguiva ambulatorialmente, venne fuori che la ragazza viveva malissimo il suo handicap, per cui Claire iniziò a lavorare su come poter convivere più serenamente con la propria cecità. Man mano che faceva progressi su questo fronte, anche il quadro alimentare cominciò a migliorare. Attualmente Claire ha 19 anni, e sta continuando il suo percorso di ricovero. Sta affrontando la problematica della cecità in maniera quanto più realistica possibile, ma poichè è ancora incerta in merito all'anoressia, preferisce essere ancora seguita regolarmente dalla psicoterapeuta." (mia traduzione) 

Quello che mi piace della discussione di questo caso clinico è che Vandereycken afferma che:

L'idea che la distorsione dell'immagine corporea e che il valore sociale della magrezza siano fattori molto importanti nella comparsa dell'anoressia, parte da premesse del tutto ingiustificate. 

Innanzitutto, il fatto che il vedersi più grasse di quello che si è realmente sia un tipico e patognomonico [caratteristico di una malattia] segno dell'anoressia non è mai stato dimostrato. La dismorfofobia può essere presente in alcune ragazze affette da anoressia, ma anche in persone che non hanno alcun DCA. Inoltre ci sono donne affette da anoressia che non presentano dismorfofobia. Poichè la presenza di dismorfofobia non è costante nelle malate di anoressia, e può esserci anche in chi non ha un DCA, la distorsione dell'immagine corporea dovrebbe essere tolta dai criteri diagnostici dell'anoressia nervosa. 

Inoltre c'è un altro errore che viene fatto: il considerare equiparate immagine corporea ed estimazione corporea. Tutti gli studi sperimentali che sono stat finora condotti sull'anoressia nervosa, fanno per lo più riferimento ad una percezione esterna o visiva (eserocezione) del proprio corpo o della propria fisicità, ma non tengono conto d altri importantissimi fattori quali interocezione, propriocezione e cognizione. Quando una ragazza affetta da anoressia dice di “sentirsi non abbastanza magra” anche se è emaciata, stiamo parlando di un qualcosa che è molto più complesso del semplice malgiudicare la propria fisicità

Un'altra falsa premessa è relativa al fatto che si considerano le alterazioni della percezione dell'immagine corporea come un fattore eziologico dell'anoressia: in realtà, questi fenomeni sono più che altro secondari, come conseguenza dell'ipoalimentazione.  

E' ugualmente semplicistico l'assunto che l'influenza della società odierna, con la sopravvalutazione della magrezza, causa l'anoressia e la bulimia: la società e la sua influenza sul singolo individuo non sono un assoluto, bensì sono ampiamente mediate dal carattere dell'individuo, dalla sua psicologia, dalle sue esperienza di vita, dal contesto in cui vive. Per cui è impossibile affermare che un determinato fattore ha lo stesso effetto su ogni qualsiasi persona, ed è di fatto impossibile predire quale sarà la sua reale incidenza sul singolo.  

L'anoressia è una malattia che può essere compresa solo mediante un approccio multidisciplinare e multidimensionale. La malattia in sè è solo l'espressione finale di numerosissime strade diverse da loro, che si compongono di individuali fattori predisponenti, precipitanti e perpetuanti.(mia traduzione) 

Io non posso che quotare in pieno tutto quanto affermato dall'autore dello studio. Sono perfettamente d'accordo sul fatto che l'eventuale dismorfofobia non è una causa bensì una possibile conseguenza dell'anoressia.

Personalmente, fortunatamente non ho mai sofferto di dismorfofobia. Non mi sono mai vista grassa, e non ho mai voluto perdere peso semplicemente perchè volevo dimagrire. Però inizialmente, quando ho iniziato il mio primo percorso di ricovero, volevo conservare quella magrezza patologica semplicemente perchè mi sembrava la dimostrazione tangibile del mio controllo. Tuttavia, continuando il mio percorso, mi appariva chiaro che io non volevo stare male, volevo tornare al mio set-point di peso corporeo. Volevo poter vivere tranquillamente la mia vita. Ma per arrivare a questo dovevo lasciare che fosse la dietista a dirmi cosa e quanto mangiare, e io questo inizialmente ho faticato ad accettarlo non tanto per l'aumento di peso in sè, bensì fondamentalmente perchè questo per me indicava che non avevo più io il controllo.

Tuttavia la mia percezione della mia fisicità (come sentivo il mio corpo, come mi vedevo allo specchio, l'accuratezza della mia auto-percezione) è sempre stata attendibile e fedele alla realtà. Non mi sono mai “sentita grassa”, e non ho mai voluto peculiarmente perdere peso.  

Case Report 4: Cecità e Bulimia (Fernandez-Aranda, 2006)

Questo case report è relativo a diagnosi e trattamento di un caso di bulimia nervosa in una donna spagnola 47enne cieca. Questo caso presenta come caratteristiche fondamentali l'esordio in tarda età del DCA, l'alternanza di episodi di restrizione alimentare, episodi di binge, e conseguente vomito aiuto-indotto, e gravi difficoltà ad arginare i momenti di stress. Fin dall'inizio si evince che l'immagine corporea per questa donna non era essenziale.

"Sin dall'età di 43 anni (età d'esordio del DCA) la paziente descriveva la presenza di episodi di abbuffate seguite da vomito auto-indotto, scatenanti ed incrementati da fattori di stress psicosociali. Inoltre la donna riferisca la costante presenza di sintomi ansiosi e depressivi. Durante gli ultimi 4 anni, a causa del DCA la paziente aveva preso più di XX chili. Prima del DCA il peso della paziente si collocava nella fascia più bassa del normopeso, e la donna non aveva mai mostrato alterazioni dell'immagine corporea nè la voglia di perdere peso.” (mia traduzione) 

Cosa concludono Fernandez-Aranda e i suoi colleghi?

In questo caso, la bulimia sembra essere una conseguenza dell'attuazione di un'inappropriata strategia di coping nei confronti dello stress, e non ha niente a che vedere con l'insoddisfazione nei confronti del proprio corpo. In effetti, nella maggior parte dei casi un DCA non è dovuto ad un problema di fisicità, ma alle difficoltà che una persona ha nel rapportarsi ai problemi della sua vita.” (mia traduzione) 

Anche in questo, mi trovo pienamente d'accordo. Vi ricordo inoltre che, tornando a quello che dicevo di voler dimostrare ad inizio post, in tutti i casi stiamo parlando di donne cieche, che dunque non hanno la possibilità di guardarsi allo specchio e di avere quindi una percezione visiva della propria fisicità. Non potevano neanche vedere immagini di modelle particolarmente magre, o confrontarsi col fisico delle loro coetanee... eppure, hanno ugualmente sviluppato un DCA.  

E voi cosa ne pensate di questi Case Report? Se vi va, fatemi sapere come la pensate nei commenti!

venerdì 23 gennaio 2015

(I'm NOT) All About That Bass

*Attenzione: Tra qualche attimo su questi computerschermi, la mia opinione condita con considerevole ironia.*

Conoscete la canzone “All About That Bass” di Meghan Trainor? La cantante dice di questo suo brano che “è un inno ad apprezzare se stessi e il proprio corpo, per invitare anche le ragazze con qualche chilo di troppo a piacersi così come sono” (cit. da un’intervista di Meghan Trainor).

Dato che il video ufficiale di questa canzone su YouTube ha una cosa come circa 513 milioni di visualizzazioni, anch’io ci ho dato un’occhiata dato l’entusiasmo generale con il quale questo brano pare essere stato accolto. In fin dei conti, il fatto che una cosa piaccia ad un sacco di gente, non significa che sia al di sopra di ogni possibile critica. Tuttavia, prima di sviscerare questa canzone pezzo per pezzo, nonché prima di esprimere la mia opinione al riguardo, vorrei avvertirvi che questo brano è cantato da una ragazza bianca che utilizza un falso vernacolo afro-americano che è appena un paio di gradini sotto quello di Iggy Azalea sul “non c’è modo che tu canti effettivamente così dal vivo”-ometro. Dunque, ecco a voi la canzone e il relativo video:

Okay, questa canzone è molto orecchiabile, la cantante sembra una bambolina, e il video ricorda l’ “Hairspray” di John Waters se non fosse stato satirico e se Amber Von Tussel fosse stata graziosa. Complessivamente, è tutto molto tenero, il che spiega come mai abbia ricevuto un sacco di “like”. Ma se andiamo a considerare il testo, mi sembra che sorga qualche problemino. Per cui, cominciamo dalle cose più semplici, per poi spostarci su qualcosa di più serio.

Because you know I’m all about that bass, ’bout that bass, no treble.

No, scusa Meghan, ma di cosa stai parlando? Della tua stessa voce? Quella sì che è acuta! Del resto, una canzone fatta solo da bassi non sarebbe molto interessante né orecchiabile. E se non si dispone di un’ampia capacità di vocalizzare quando si canta una canzone di questo tipo, sarà piuttosto difficile che tu riesca a sfondare come cantante in un mondo che è tutto bassi e niente acuti.

Dunque, la prima strofa si apre con:

Yeah it’s pretty clear, I ain’t no size two, but I can shake it, shake it, like I’m supposed to do.

Meghan ci dice che è chiaro che non indossa una taglia 2 (sarebbe la 38 italiana).

Sì, okay. Forse non una taglia 2. Ma neanche una taglia forte. (A occhio e croce, direi che porta una 44 italiana). Non lasciatevi ingannare dal vestito che indossa, un modello che farebbe sembrare tarchiata anche una pallavolista: Meghan non è una ragazza grassa. L’intero concetto di donne non-grasse che cercano di attirare l’attenzione sui loro corpi non-grassi al fine di promuovere l’accettazione del proprio corpo sovrappeso/obeso è una cosa che mi sconcerta. Lo chiamerei “movimento di grassaccetazione”. Nota bene: non ho detto “movimento di accettazione dei chili di troppo” o “movimento di accettazione della propria fisicità”. Entrambe le ideologie manifestano contro lo standard culturale della “taglia perfetta” alla quale ogni individuo acquista la propria umanità. Il “movimento di grassaccettazione” insiste sul fatto che c’è una sola tipologia di “donna reale”, e che tutto quello che si discosta da ciò è meno sessualmente desiderabile per gli uomini, e quindi di minor valore.

Nella zona di grassaccettazione si possono trovare donne che indossano taglie comprese tra la 42 e la 46 italiane, e che dicono che “grasso è bello”, che gli uomini non vogliono gli stecchini, che “real women have real curves” e così via. Un sacco di donne famose hanno fatto audaci affermazioni in merito alla loro taglia quando si trovavano nella zona di grassaccettazione: tra queste Jennifer Lawrence, Jennifer Lopez, e Kate Winslet prima di diventare la mamma sexy di Barbie (è un complimento, eh!). In realtà, tutte queste donne non fuoriescono affatto dai canoni dell’attrattiva sessuale, pur non potendo essere descritte come “magre”, e dalle quali ci si aspetta che rispondano in un certo modo alle domande che gli vengono rivolte in merito alle loro curve. Se si considerano donne come le succitate come sinonimo di “taglie forti”, si va a diffondere un messaggio di accettazione della propria fisicità e positività, relativo a donne che certamente non indossano una taglia 2, ma che parimenti sono ben lungi dall’essere grasse. Arrivando al punto, a me sembra che inni e slogan di questo tipo abbiano come unico scopo quello di far accettare meglio il proprio corpo a donne che pensano di essere grasse, ma che in realtà non lo sono, ricordando loro costantemente che poiché non indossano una taglia 2, allora dovrebbero sentirsi grasse. Un paradosso nel paradosso, insomma.

La canzone prosegue dicendo: “But I can shake it shake it, like I’m supposed to do”, e questo lo trovo disturbante sotto due differenti punti di vista. Innanzitutto, quello che la gente si aspetta è che noi sculettiamo? Dunque dovremmo sculettare sempre e comunque? Perché nessuno me l’ha mai detto? Se non sculetto la mia laurea conta di meno? In secondo luogo: le ragazze che indossano una taglia 2 non sono in grado di sculettare? Che taglia indossa Shakira? No, perché a me sembra piuttosto piccoletta, ma direi che sa sculettare in maniera eccelsa…

'Cause I got that boom boom that all the boys chase, and all the right junk in all the right places.

Ha tutto al posto giusto, ragazzi! Meghan Trainor è la nuova Mary Sue! Vi do questa notizia in esclusiva, eh!

Una delle principali tematiche di questa canzone è che le donne che hanno una corporatura non-magra e delle belle curve sono quelle che gli uomini preferiscono. Ora, ammesso e non concesso che questo sia vero, e poniamo pure che lo sia, se questa canzone ha l’obiettivo di promuovere la positività nei confronti della propria fisicità quale che sia, perché andare poi a definire una specifica tipologia corporea indicandola come la più desiderabile? E, soprattutto, perché puntare tutto il valore e l’accettazione della fisicità di una donna su quanto gli uomini possano trovarla arrapante?

I see the magazines workin’ that Photoshop: we know that shit ain’t real, c’mon now, make it stop. If you got beauty beauty, just raise ‘em up ‘cause every inch of you is perfect from the bottom to the top.

Questa è l’unica strofa della canzone che mi piace. Sul serio. Guardate com’è perfetta. Celebra la fisicità di ogni donna, quale che sia, ed incoraggia ogni ragazza a non farsi ingannare dal fotoritocco, ma a trovare i propri punti di forza e valorizzarli. Ovvio, l’intero concetto di “bellezza” è un costrutto soggettivo, per cui questa non dovrebbe essere la prima preoccupazione di nessuna donna, perciò c’è una problematica intrinseca inerente tutte le canzoni di questo tenore. Ma per un attimo concentriamoci solo su quanto sia raro trovare una canzone pop che trasmetta un messaggio di questo tipo. Tutta la canzone avrebbe dovuto essere come questa strofa. Purtroppo è ben altro.

Ho detto “avrebbe dovuto essere”, perché dopo questa strofa si riprecipita nel baratro con:

Yeah, my mama she told me: don’t worry about your size. She says boys like a little more booty to hold at night.

Di nuovo, il messaggio che viene trasmesso NON è davvero “io valgo come persona, anche se non ricalco lo standard fisico cui mi è stato detto dovrei aderire”, bensì quello che viene trasmesso è: “io valgo come persona e soprattutto valgo più di altre donne che non hanno la mia stessa fisicità, perché grazie alle mie curve appaio più attraente agli occhi maschili”.

E ho detto “avrebbe dovuto essere” perché le parole successive della canzone dicono esattamente:

You know I won’t be no stick figure silicone Barbie doll. So if that’s what you’re into then go ahead and move along.

Traduzione: “Se non sei un uomo che desidera oggettificare/chiavare me molto di più rispetto a quanto non desideri oggettificare/chiavare altre donne basandosi puramente sulla fisicità, allora AH AH AH!, sarò io per prima a mandarti a quel paese.”

Da quando in qua “l’accettazione della propria fisicità” è diventata, o necessita di diventare, un altro modo per stabilire scale di valore tra le persone? Se una donna si è rifatta il seno, vale di meno rispetto a una che ha il seno al naturale? Questo a me sembra semplicemente un altro modo in cui il “movimento di grassaccettazione” tenta di definire chi è e chi non è una donna “reale”. Eppure, il rifarsi il seno non è una modificazione del proprio corpo tale e quale al farsi un tatuaggio o al mettersi un piercing? E allora perché le due cose non vengono viste allo stesso modo? Ho la strana sensazione che tutto questo abbia in qualche modo a che fare con una serpeggiante misoginia di fondo. Forse perché uno degli obiettivi legati al rifarsi il seno è conformarsi ad uno specifico standard culturale? E come può questo essere differente dal tatuarsi qualcosa?

Okay, era una domanda retorica. In realtà posso ben capire quale sia la differenza: anche gli uomini si fanno i tatuaggi o si mettono i piercing. La Chirurgia Plastica è generalmente vista come un modo che hanno a disposizione le donne per rendersi più sessualmente desiderabili agli occhi degli uomini (senza considerare il fatto che chi ricorre a questo tipo di chirurgia molto probabilmente ha dei problemi psicologici di non accettazione di sé, di fondo…). Persino la Chirurgia Plastica Ricostruttiva cui vengono sottoposte le donne dopo essere state operate per un tumore al seno ha in fondo questo obiettivo: anche se effettuata per il comfort personale della paziente, risponde comunque allo standard che dice che tutte le donne devono avere il seno (bene, benvenuta trans-misoginia!), il che è ciò che fa sentire a disagio la paziente innanzitutto.

Giusto per mettere i puntini sulle “i”: io non biasimo nessuno che ricorra alla Chirurgia Plastica per ogni qualsiasi motivo, anzi, io sono dell’idea che ognuno sia liberissimo di scegliere cosa fare nella propria vita; sto solo disquisendo sul modo in cui generalmente la gente vede il mondo, e sulle aspettative culturali del seno nelle donne in questo contesto.

Perciò, tenendo tutto questo bene a mente, ritornando alla posizione del “movimento di grassaccettazione” sulla Chirurgia Plastica, quello che viene affermato è che: anche se stiamo definendo il tuo valore come persona e come donna soltanto in base al tuo sex appeal, se non fai niente per renderti ancora più attraente, allora sei una stronza troietta e ti odiamo tutti.

Ora, consideriamo la parte “stick figure” della strofa. Questo è un altro colpo basso diretto alle donne che hanno una fisicità che minaccia la loro autostima, e alle donne che possono solo accontentarsi della propria taglia se questa non corrisponde ad una “perfetta” forma corporea. È questo che sta alla base di ogni “mangia un panino” o “sembri un insetto stecco”.

I’m bringing booty back, go ahead and tell them skinny bitches that no, I’m just playing, I know you think you’re fat but I’m here to tell ya every inch of you is perfect from the bottom to the top.

Questa strofa racchiude in sé perfettamente tutto quello che c’è di sbagliato in questa canzone. Quello che potrebbe essere un messaggio positivo si trasforma in una sorta di pseudo-complimento assolutamente ambiguo. Sì, “ogni centimetro di te è perfetto, dalla testa ai piedi”, ma solo a certe condizioni. Starai meglio con te stessa, ma solo se donne che indossano la taglia di Meghan Trainor staranno meglio deridendo il tuo aspetto. E solo se tu presenti le medesime insicurezze in merito al tuo peso.

E, dai, andiamo: dire quello che realmente pensi, facendolo poi seguire da uno “sto scherzando, eh!” (“I’m just playing”), è la cosa più passivo-aggressiva che esista sulla faccia della Terra. Dire “Oh, sto scherzando!” è una delle peggiori prese per i fondelli che ci siano: dà a chi parla la possibilità di dire quello che vuole, di infamare nei peggio modi, costringendo però il bersaglio dell’insulto a reagire con un sorriso perché tanto “è solo uno scherzo”.

Okay, ora che ho passato in rassegna il testo della canzone, passiamo al video. È un video a tema.

Riuscite ad indovinare di che tema si tratta? La vostra risposta è: “donne di colore come oggetti di scena”? Risposta esatta. Delle 4 ragazze che ballano insieme a Meghan, solo una è bianca. Meghan Trainor è spesso e volentieri affiancata da 2 donne di colore, compresa una scena in cui sembra che queste donne incoraggino entusiasticamente la sua danza, stile il video di “We Can’t Stop” di Miley Cyrus. Ciò non mira ad incoraggiare l’accettazione della propria fisicità e men che meno l’uguaglianza tra le donne che pure hanno strutture fisiche diverse: mira esclusivamente a far vedere quanto sia ganza Meghan Trainor.

Luogo comune vuole che le donne bianche siano molto meno brave e sexy nel ballare rispetto alle donne di colore, giusto? Per cui, se delle ragazze di colore esaltano una ragazza bianca che balla, questo le fa guadagnare punti, no?! Cioè, a me questo video ricorda davvero sorprendentemente l’ “Hairspray” di John Waters: non posso fare a meno di associarlo all’affermazione della protagonista “Essere invitata in un posto da gente di colore! Mi fa sentire così ganza!”. Alle persone bianche piace ottenere l’approvazione delle persone di colore in un Paese multietnico come gli U.S.A. Non vogliono che la loro posizione sociale (di superiorità (???)) venga messa in discussione, poiché questo li farebbe sentire profondamente a disagio.

Guardate le ultime 2 immagini delle 3 che vi ho messo sopra. Consideriamo il ruolo delle “curve” in questa canzone. Il termine utilizzato dalla cantante è “booty” che, letteralmente, si traduce come “bottino”. Al di là del fatto che questa parola mi fa pensare ai pirati, consultando Urban Dictionary ho scoperto che questa parola è utilizzata per evocare l’immagine stereotipata di una donna di colore con un sedere che fa provincia. Questa peculiarità raziale è stata utilizzata dalle persone bianche per oggettificare, fetishizzare (credo di aver appena inventato una nuova parola…) e sessualizzare le donne di colore, mentre in questa canzone una ragazza bianca la utilizza per se stessa in un contesto positivo. Quando Meghan Trainor richiama l’attenzione sulle dimensioni del proprio fondoschiena e lo chiama “booty”, pertanto, chi la guarda è portato a pensare a lei come ad una donna che è serena con la propria fisicità e che è una vera femminista, ma non può “restituire il bottino” perché non è mai stato utilizzato per stereotiparla.

L’ultima immagine è un perfetto esempio di come la società americana vede il corpo delle donne di colore: a disposizione di chiunque voglia toccarlo e sbeffeggiarlo. In questa scena, una ragazza bianca palpa il sedere della ragazza di colore mentre sta ballando. Quest’immagine secondo me rinforza non solo l’insidioso bisogno culturale dei bianchi di controllare e sessualizzare i corpi delle ragazze di colore, ma rinforza anche il dannoso preconcetto che il corpo di una ragazza di colore è a disposizione di chiunque, senza bisogno di chiedere consenso, perché tanto “le negre sono tutte troie” (cit. di un noto politico italiano).

Nota a margine: il fatto che tutto il video ricalchi lo stile della musica pop degli anni ’60, un genere che è stato propugnato da artisti di colore del tempo e riproposto successivamente dai bianchi, spinge verso una verità che molti artisti bianchi della musica pop non vogliono ammettere: che stanno solo facendo delle pallide imitazioni di quello che è stato creato da artisti di colore, e cercano di soffocare il lavoro di quegli artisti di colore nella speranza che nessuno se ne accorga.

Okay, adesso so che in molti mi criticheranno per aver decostruito un qualcosa che sembra, di primo acchito, essere in grado di lanciare un messaggio positivo ed incoraggiante a tutte le donne. Ma in questo video e in questa canzone ci sono troppe cose che non mi vanno giù.

Non mi piace la discriminazione che ci vedo nei confronti delle ragazze di colore, che vengono trattate come se fossero oggetti di scena, per promuovere uno standard di bellezza che le donne bianche vantano e da cui le donne di colore sono oppresse: mi sembra un video piuttosto razzista, anche se in modo parzialmente subliminale.

Inoltre, mi sembra una vera carognata prendere delle donne che non sono grasse, e definirle come tali, cercando di attribuire loro una credibilità che non hanno, perché mi sembra una palese presa per i fondelli per quelle donne che sono realmente in sovrappeso od obese.

Infine, in qualità di donna magra, mi ribello al messaggio di fondo di questo video: il fatto che ogni centimetro di noi sia perfetto, dalla testa ai piedi, è vero soltanto se una persona porta una taglia che sia almeno una 42? Perché dalla canzone parrebbe che il concetto non si applicasse alle “skinny bitches”, alle “stick figures”, o alle donne che non hanno “a little more booty to hold at night”. Come può Meghan dire della sua canzone che è “body positive” (cit.) se non include ogni qualsiasi tipo di fisicità? Nel momento in cui donne curvy chiedono rispetto, ma non lo danno nei confronti di chi è magra, mi sembra una significativa forma di ipocrisia. Quando le donne curvy proclamano che “le donne vere hanno vere curve” o che “gli uomini preferiscono la carne, le ossa sono per i cani”, a me queste non sembrano affatto dichiarazioni di persone che si accettano e che amano quello che vedono nello specchio. Una ragazza che veramente è a suo agio con la propria fisicità, è consapevole che ogni qualsiasi struttura fisica, peso, o taglia indossata non rende una donna meno “reale” né meno meritevole di rispetto. Una ragazza veramente confidente col suo corpo apprezza la bellezza in ogni qualsiasi forma e taglia, e non ha bisogno di insultare donne che sono fisicamente più magre di lei per sentirsi più a suo agio con se stessa.

E voi cosa ne pensate di questa canzone e di questo video? Se vi va, fatemelo sapere nei commenti!

P.S.= Dato il mio vissuto di anoressia, mi sono posta il dubbio se la mia opinione su questo video potesse essere eccessivamente di parte poiché influenzata da detto background. Allora l’altroieri ho acchiappato mio fratello Mark (sì, si chiama come il creatore di FaceBook… ma purtroppo non è lui… sarei un filino più ricca, se lo fosse, e non mi starei a preoccupare della penuria lavorativa…) che era passato da casa mia a farmi una visita (ehm, no, in realtà voleva che gli rispiegassi una cosa che non aveva capito…) e gli ho fatto vedere il video in questione, chiedendogli cosa ne pensasse. La sua risposta è stata: “Perché questo cesso a pedali con quell’osceno fiocco da uovo di Pasqua si atteggia come una strafiga, quando è palese che non arriva neanche a leccare il culo per sbaglio alla mora, che viene invece trattata come se fosse una cretinetta, facendole quasi rompere la schiena per sollevare quel gay obeso? Secondo me è tutta invidia! La caldaia con la parrucca si è circondata di ragazze che fisicamente le somigliano, per umiliare quella che invece è diversa… ma cercare di buttare giù l’avversario è l’ultima risorsa dei perdenti”. Ecco cosa pensa il maschio italiano medio. Alla faccia tua, Meghan: non so quale messaggio alla fin fine volessi lanciare (ammesso e non concesso che l’obiettivo non fosse solo quello di fare soldi a palate facendo leva su un argomento delicato come l’accettazione di sè), ma mi pare che in ogni caso tu abbia toppato di brutto.
 
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